The Project Gutenberg EBook of Rime, by Tullia d'Aragona

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Title: Rime

Author: Tullia d'Aragona

Posting Date: November 2, 2014 [EBook #6938]
Release Date: November, 2004
First Posted: July 15, 2003

Language: Italian

Character set encoding: ISO-8859-1

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_corsivo_, =grassetto=





LE RIME DI TULLIA D'ARAGONA

CORTIGIANA DEL SECOLO XVI


EDITE a cura e studio DI ENRICO CELANI


BOLOGNA, 1891



   Poichè la carità del natìo loco
   mi strinse, raunai le fronde sparte...
              (DANTE, _Inf_. XIV).

Uno dei fatti più notevoli al principio del decimosesto secolo è senza
dubbio l'apparire della _cortigiana_; figura degna di considerazione e
di esame non ebbe pur anco uno storico che di lei si occupasse
scrupolosamente e gelosamente, e, diseppellendo dalle biblioteche ed
archivii i numerosi documenti che la riguardano, dasse compiuta questa
pagina di storia che non è tra le ultime del nostro rinascimento. Il
nome di _cortigiana_ si collega certamente alla storia dell'umanesimo,
ma quando, dove e come ebbe principio? Tale quesito non ha ancora
risposta sicura. Arturo Graf [1], che si occupò ultimo della questione
con quell'acume di critica ed abbondanza di erudizione ben note, esita
a dare giudizio decisivo, attendendo pur lui che nuovi studî e
documenti traccino via più ampia e sicura per definire tale punto.

Lo sviluppo della _cortigiana_ prodotto dalla rivoluzione sociale che
si svolgeva nel rinascimento, adattato al nuovo regime di vita che
rese allora meno dure e servili le leggi sul costume, viene certamente
a smentire l'asserzione che il cinquecento fosse l'età più feconda di
turpi vizii, e l'amor patico, nato nelle epoche di maggior coltura e
diffuso su larga scala nel medio evo, trova a combatterlo questo
sviluppo della cortigianeria e le leggi civili di quasi tutti gli
stati italiani, mentre dal pergamo tuona aspra e minacciosa la voce di
S.Bernardino [2] e del Savonarola [3]; l'Ariosto stesso che non ne fu
immune dichiara che nel 1518 il vizio si restringeva a pochi umanisti.
Ed allora si disputa sulla teorica dell'amore che ha forti e strenui
campioni; dell'amore libero tra liberi discorre Speron Speroni nel
_Dialogo d'amore_ ove introduce a parlare la Tullia d'Aragona e
Bernardo Tasso, innamorati, e costretti a separarsi dovendo
quest'ultimo andare a Salerno; dell'amor platonico, primi il Bembo e
il Castiglione, il Piccolomini poi, che lo definisce "un desiderio di
possedere con perfetta unione l'animo bello della cosa amata [4]"
contrastando all'amore che anela il solo possesso del corpo. All'amore
assolutamente libero, per il quale era inutile insistere dopo il
lavorìo dell'Aretino, sono infirmate quasi tutte le liriche di
cortigiane del cinquecento; rispecchiano quelle l'ambiente nel quale
furono create, queste la cortigianeria nei luoghi ove la coltura era
più vasta e diffusa: dalla corte pontificia a quella dei Medici, da
Venezia a Siena.

Il rinascimento, rotti gli argini che opponevansi nel medio evo alla
coltura della donna, condusse a due estremi sostanzialmente diversi
che si disputarono il campo per quasi tutto il secolo decimosesto: la
coltura seria e positiva da un lato, la licenza dall'altro: prodotta
quest'ultima da male intesa libertà, condusse poi per inevitabile
antitesi all'educazione claustrale. Di tale antitesi tramandarono
documenti il Castiglione e il Garzoni; il primo, attribuendo al Bembo
la dichiarazione poetica dell'amore e trasportando il lettore nella
Corte di Urbino, ove le lettere e le arti erano tradizione, appalesa
per bocca di Giuliano de' Medici, la cui consorte Filiberta fu cantata
modello di femminili virtù, che "la coltura della donna deve
rassomigliare a quella dell'uomo, cui ella è pari. Nei diversi rami
della scienza e dell'arte essa deve possedere la conoscenza necessaria
per parlarne con intelligenza e con senno anche quando queste non sono
professate. La donna deve essere versata in letteratura, aver
conoscenza di belle arti, essere esperta nella danza e nell'arte del
vestire, saper evitare non meno ciò da cui si può supporre vanità e
leggerezza, che quanto palesa mancanza di gusto. Il suo conversare,
serio e faceto, dev'essere adatto alla convenienza de' casi, essa non
deve mai parlare ad alta voce e con iscostumatezza, nè con malizia ed
in modo da offendere, deve corrispon[spon]dere alla sua condizione con
modestia e con modi convenienti, a cui è obbligata, verso quelli che
costituiscono abitualmente la sua compagnia. Nel suo presentarsi e nel
contegno sia aggraziata senz'affettazione. Le sue qualità morali,
l'onestà e le virtù domestiche devono essere d'accordo con le
intellettuali. Debb'esser casta, ma cortese: arguta ma discreta; ad
ogni parola libera non dee fare un volto troppo severo. Sappia
governar la casa e la sostanza e guidar l'educazione de' figliuoli.
Non tenti d'imitar l'uomo negli esercizi del corpo, che a lui sono
adatti ed a lui si richieggono. In tutto il suo essere, nel
portamento, nell'andare e stare, nel parlare, mostri grazia, dolcezza
femminile e non rassomigli all'uomo". E questi ammaestramenti
seguirono donne d'illustre casata, quali Eleonora d'Aragona, Isabella
d'Este, Ippolita Sforza, Elisabetta Gonzaga, e delle città ove
l'elemento borghese ottenne spesso la supremazia ed il potere, resta
il ricordo di Antonia Di Pulci e Lorenza Tornabuoni.

L'ambiente elevato e colto nel quale visse la cortigiana nel
cinquecento non poteva non influire su di essa e spingerla a
gareggiare con le donne oneste, spesso coltissime; troviamo infatti in
tutte le nostre storie letterarie, vicino ai nomi di quelle due grandi
che furono Vittoria Colonna e Veronica Gambara, due cortigiane:
Veronica Franco e Tullia d'Aragona; e se tra loro molto lungi per
costumi, non certo per meriti letterarii. Data questa coltura nella
donna onesta doveva alla cortigiana richiedersi necessariamente di
esserle pari se non superiore, avere vivace ingegno, voce bella e
gradita, essere esperta nel suono e nella danza, maestra insomma in
tutte quelle arti che, bramate o volute, erano poi, strano a
considerarsi, altamente biasimate da uomini come l'Aretino e il
Garzoni, che definiscono tali doti atte solo a sedurre ed attrarre.
"Onde pensi che nascano i canti, i suoni, i balli, i giuochi, le
feste, le vegghie, i concerti, i diporti loro, se non da quell'intento
di aver l'applauso, il commercio, il concorso della turba infelice di
questi amanti, che rapiti da quelle voci angeliche e soprane, attratte
da quei suoni divini di arpicordi e lauti, impazziti in quei moti e in
quei giri loro tanto attrattivi, consumati in quei giuochi sfarzevoli,
rilegrati in quelle feste giulive, addormentati in quelle vegghie
pellegrine, immersi in quei conviti di Venere, di Bacco, morti nel
mezzo di quei soavi diporti, restino prigioni e servi del lor fallace
ed insidioso amore? [5] "E dacchè siamo col Garzoni, che lasciò della
cortigianeria la migliore delle testimonianze, non possiamo esimerci
dal citare un altro particolare degno di nota che egli ci offre e
riguarda il _mezzano_, che, dovendo esser in tutto degno della
cortigiana che l'aveva prescelto, serve a gettare luce in
quell'ambiente triste e tuttora oscuro. "Imita il grammatico nel
scrivere le lettere amorose tanto ben messe, e tanto ben apuntate che
rendono stupore, nel dettar politamente, nel spiegar galantemente,
nell'esprimer secretamente il suo pensiero... appare un poeta nel
descrivere i casi acerbi con pietà di parole, i fatti allegri con
giubilo di cuore... porta seco i sonetti del Petrarca, le rime del
Cieco d'Ascoli, l'_Arcadia_ del Sannazaro, i madrigali del Parabosco,
il _Furioso_, l'_Amadigi_, l'Anguillara, il Dolce, il Tasso, e sopra
tutto i strambotti d'Olimpo da Sassoferrato, come più facili, sono i
suoi divoti per ogni occasione... Si reca dietro qualche sonetto in
seno, un madrigale in mano, una sestina galante, una canzone polita,
con un verso sonoro, con uno stil grave, con parlar fecondo, con tropi
eleganti, con figure eloquenti, con parole terse, con un dir limato,
che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero, o il Gorellini
l'abbiano fatto allora allora; e si mostra alla diva con lettere
d'oro, con caratteri preziosi; si legge con dolcezza, si pronunzia con
soavità, si dichiara con modo, si scopre l'intenzione, si manifesta il
senso, e si palesa il fine del poeta... Con la musica diletta sovente
le orecchie delle giovani, mollifica l'animo d'ogni lascivia, ruina i
costumi, disperde l'onestà, infiamma l'alma di cocente amore, incende
i spiriti di concupiscenza carnale; mentre si cantan lamenti,
disperazioni, frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle,
barzellette, e si tocca la cetra, o il lauto, a una battaglia amorosa,
a una bergamasca gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda
polita, a una moresca graziosa, e pian piano s'invita ai balli e alle
danze, dove i tatti vanno in volta, i baci si fanno avanti le parole
scerete... [6] ". Questo procuratore di amore non è egli un tipo
abbastanza curioso e interessante?

La _cortigiana_ apparisce in Roma alcuni anni prima del 1500 [7] e
come tale è ufficialmente, se così è lecito dire, riconosciuta in
documenti autentici della curia papale. In un censimento [8] compilato
d'ordine della suprema autorità di Roma, redatto certamente nel
settennio corso dal 1511 al 1518, ove trovansi numerate case,
botteghe, proprietari ed inquilini, e di tutti o quasi tutti si nota
la patria, condizione ed arte, le _cortigiane_ sono notate in numero
esorbitante, spagnuole e veneziane in massima parte, e distinte in
_cortesane honeste, cortesane putane, cortesane da candella, da lume,
e de la minor sorte_. Una sola volta, e forse senza alcuna malizia, il
compilatore della statistica dimentica l'aridità del suo lavoro e
nota: "La casa di Leonardo Bertini habita Madonna Smeralda cura 3
figlie _piacevoli_ cortegiane".

Il tipo dell'elegante cortigiana, dell'Aspasia del cinquecento, è
l'Imperia, morta in Roma nel 1511 a soli ventisei anni, [9] ricordata
egualmente con ardore da storici e romanzieri, amata da Angelo del
Bufalo e da Agostino Chigi il famoso banchiere [10] celebrata da poeti
e letterati, e presso la quale adunavasi il fiore della romana
aristocrazia e convenivano uomini quali il Sadoleto, il Campani, il
Colocci. Ebbe per maestro Domenico Campana detto Strascino. Di altre
citansi le doti singolari: "Lucrezia Porzia, dice l'Aretino, pare un
Tullio, e sa tutto il Petrarca e il Boccaccio a memoria ed infiniti e
bei versi di Virgilio, d'Orazio e d'Ovidio e di molti altri autori"
[11]: la Squarcina conosceva benissimo il greco: la Nicolosa leggeva i
salmi in ebraico, e molte ancora che sarebbe ozioso il ricordare.

Malgrado tutto ciò la cortigiana del cinquecento era pur sempre quella
del medio evo: tolta dall'ambiente che l'avvinceva, costringendola a
piegarsi al rinascimento classico, rimaneva di essa la donna nella
quale si alternavano tutti quei bassi sentimenti che erano diretta
conseguenza della vita che conduceva. Però qualche barlume di affetto
vero, potente, trovasi pur nella storia della cortigianeria: il Molza
ed il Bandello non erano alieni dal credere che la cortigiana potesse
veramente amare, noi, più scettici, crediamo con riserva a questo
amore che poteva esser cagionato da interessi troppo palesi e reali,
dubitiamo che la cortigiana avesse il cuore al di sopra della ragione,
mentre accettiamo senza dubbio alcuno il fatto che nella prostituta di
più bassa specie si rinvenisse l'amore nelle più forti sue
manifestazioni. È questo un fatto che si ripete continuamente anche ai
nostri giorni, e se discutibile dal lato psicologico, non cessa per
questo di essere men vero. Ricordasi l'Aragona innamorata del Varchi e
del Manelli: Camilla pisana dello Strozzi; Marietta Mirtilla del
Brocardo, ed una certa Medea che in morte di Ludovico dell'Armi veniva
consolata per lettera dall'Aretino; ma vogliamo proprio credere sul
serio all'amore ispirato alla cortigiana da letterati? Questi erano
allora come adesso, e come forse disgraziatamente lo saranno sempre,
più ricchi d'ingegno, di madrigali, di epistole che di quattrini,
esaltavano le cortigiane, dedicavano loro libri e capitoli e col
sacrificio dell'amor proprio ricambiavano i favori lor concessi:
Antonio Brocardo scrisse un'orazione in lode loro, il Muzio, il Tasso,
il Varchi esaltarono l'Aragona: il Molza, Beatrice spagnola:
Michelangelo Buonarroti, Faustina Mancina: Niccolò Martelli l'onorata
madonna Salterella; e le cortigiane si abbarbicavano a questi
letterati perchè da essi dipendeva in massima parte la rinomanza loro
[12]. La Tullia d'Aragona è quella che nelle sue rime lascia
maggiormente scorgere l'influenza dei letterati, sino a dubitare che
alcune di esse siano opera del Varchi stesso, e dà in pari tempo la
figura spiccata della strisciante cortigianeria che avviluppava anche
allora i più minuscoli principi. L'antitesi è in Veronica Franco della
quale daremo in breve le rime, divenute di meravigliosa rarità,
desiderio ardente e inappagato di bibliofili senza numero, orgoglio di
alcuni pochissimi più venturati [13]: essa è l'incarnazione della
donna libera del cinquecento ed è l'unica che canti liberamente i suoi
amori: non s'informa a platonismo o castità irrisori, ama per amare e
soddisfare i sensi, e i suoi liberi amplessi, dice il buon P. Giovanni
degli Agostini "con tal'arte seppe dipingerli e con tal frase
adornarli che servono agl'incauti di vigoroso solletico alla
concupiscenza [14] ". Tale non può essere oggi il parere di coloro che
si occupano seriamente della nostra letteratura: ogni pagina, bella o
brutta, sana o impura, che venga a chiarire la nostra rinascenza, non
è che contributo a lavoro maggiore, e come tale spero vorrà essere
accolta questa mia debole fatica.


* * *

Della Tullia d'Aragona parecchi si occuparono, in questi ultimi tempi:
forse ne parlerà ancora il Bongi nel seguito de' suoi _Annali del
Giolito de' Ferrari_, editi dal Ministero della Pubblica Istruzione;
certamente poi il Biagi in altra edizione di un suo scritto apparso
nella _Nuova Antologia_ del 1886; ma stimo che la biografia della
poetessa poco abbia più da offrire a così insistenti e dotti
ricercatori, perchè la sua vita è quasi tutta delineata, e molto
nettamente per l'epoca nella quale visse e la vita nomade che ebbe a
condurre. In ogni modo augurando sempre nuova luce, basta al mio
assunto ritrarre in poche linee la vita della Tullia, servendomi anche
di documenti finora non messi a profitto dai due egregi scrittori.

Il Crescimbeni [15], il Quadrio [16], il Mazzuchelli [17], il
Tafurri [18], e ultimo ancora Pietro Vigo [19] credettero la Tullia
napolitana; lo Zilioli [20] seguito dal Canestrini [21] e dal Labruzzi
[22] la dissero romana a ciò confortati, prima che altre testimonianze
venissero a luce, dalle precise dichiarazioni che Girolamo Muzio fa
nell'egloga _Tirrenia_ a lei dedicata [23]. Infatti la Tullia nacque
in Roma da Giulia Campana ferrarese [24] e dal cardinale Luigi
d'Aragona [25]. L'anno di sua nascita è ignoto: il Labruzzi e poi il
Biagi [26] considerando che nel 1519 il padre di lei era già morto e
che nel 1527 ella era già nota nel mondo galante, pongono la nascita
circa il 1505, basando anche tale congettura sulla novella VII degli
_Ecatommiti_ di Giovanni Battista Giraldi. Sta infatti che il Giraldi
finge sia raccontata la novella di Nana e Saulo nel 1527 al tempo del
sacco di Roma, ma vuolsi proprio accettare quella data senza dubbio
alcuno e su di essa basare deduzioni storiche, quando nella stessa
opera rinvengonsi altri episodi che forse non reggerebbero ad una
severa critica e sono falsati nelle date come quelli di Celio
Calcagnini e del Giovio? Non potrebbe il Giraldi aver fatto risalire
la partenza della Tullia al 1527 per acconciarvi quella pur strana e
sudicia novella, scritta molti e molti anni dopo il sacco di Roma e
che vide la luce, se non erriamo, solo nel 1565? A noi il Giraldi non
prova nulla; più fiduciosi in un passo dei _Ragionamenti_ dell'Aretino
che rivelano come l'anno 1519 la Giulia ferrarese partisse da Roma per
Siena con la sua _picciola figliuola_, siamo stimolati a credere
essere la Tullia nata sullo scorcio del primo decennio del decimosesto
secolo.

Della giovinezza della nostra poetessa poche notizie giunsero sino a
noi; forse visse in Firenze circa il 1517 e 1518 [27], indi a Siena,
ove "imparò a parlare sanese" poi "vedendo la madre che costei haveva
di virtù principio grande considerò che Roma è terra da donne, e
massime che ella sapea l'usanza della corte e così l'ha fatta
cortigiana [28] ". E questo _principio grande di virtù_ era infatti
posseduto dalla Tullia, alla quale gli agî procuratile dal cardinale
d'Aragona avevano permesso di addestrarsi in tutte le arti della
seduzione, vivendo tra le delizie e le comodità d'una onorata fortuna
che l'amorevolezza del padre le aveva lasciata tendendo agli studi nei
quali fece tanto profitto che non senza stupore degli uomini dotti fu
sentita in età ancor fanciullesca disputare e scrivere nel latino e
nell'italiano cose degne di ogni maggior letterato, onde arrivando al
fine dell'età e accompagnando alla sapienza e virtù sua un'isquisita
delicatezza di maniere e di costumi, si acquistò il nome di
compitissima sopra ogni altra donna del tempo suo. Compariva con tanta
leggiadria in pubblico e con tanta venustà ed affabilità d'aspetto che
aggiungendovisi la pompa e l'adornamento degli abiti lascivi, pareva
non potersi ritrovare cosa nè più gentile nè più polita di lei.
Toccava gli strumenti musicali con dolcezza tale e maneggiava la voce
cantando così soavemente che i primi professori degli esercizi ne
restavano meravigliati. Parlava con grazia ed eloquenza rarissime, sì
che o scherzando o trattando davvero, allettava e rapiva a sè, come
un'altra Cleopatra, gli animi degli ascoltanti e non mancavano sul
volto suo sempre vago e sempre giocondo quelle grazie maggiori che in
un bel viso per lusingar gli occhi degli uomini sensevoli sogliono
essere desiderate [29].

La Tullia tornata in Roma certamente poco dopo la morte del padre vi
rimase, secondo ogni probabilità, e magari contro il malevolo Giraldi,
sino al 1531, e in questo stesso anno si recò a Ferrara ove conobbe
Girolamo Muzio. L'autore degli _Ecatommiti_ dà alla partenza da Roma
della Tullia, una ragione abbastanza disonorevole. Egli narra, come
convenendo in casa dell'Aragona parecchi giovani romani, uno di
questi, che chiama Saulo, invaghitosene al sommo, molto spendesse e si
adoperasse perchè a lei nulla venisse a mancare delle agiatezze nelle
quali era cresciuta. Dimorava nella stessa epoca in Roma un tedesco,
detto Gianni, uomo ricchissimo, ma così sudicio e pieno di lordura che
faceva nausea a solo vederlo; costui innamorato della Tullia, tanto
insistette che ottenne di essere compiaciuto di lei per una settimana
di seguito al prezzo di cento scudi per notte. La Tullia acconsentì;
non resse però che una sola notte tanto era il puzzo che esalava quel
ricco tedesco. Risaputosi ciò da Saulo e da' suoi amici, ne furono
sdegnati, e mai più vollero metter piede in casa dell'Aragona; talchè
ella vedendosi disprezzata e sfuggita, se ne partì da Roma. Il
Tiraboschi cita una satira di Pasquino contro di lei [30], dalla quale
parrebbe che si fosse diretta a Bologna, ma se veramente vi andasse, e
certo dopo il 1531, non si conosce, come del pari rimase sinora ignota
la satira summentovata.

Che l'Aragona fosse in Roma nell'anno suddetto è chiaramente provato
da una lettera che Francesco Vettori scriveva da Firenze a Filippo
Strozzi li 14 Febbraio 1531. Questi chiamato in Roma da Clemente VII
sotto pretesto di rivedere alcuni conti, ma in realtà per aiutarlo a
introdurre in Firenze "un governo o vogliamo chiamarlo stato, nel
quale i magistrati della città governino in nome suo, in fatti il Duca
governò in tutto, [31]" scriveva al Vettori richiamandolo di aiuto e
consiglio; e questi rispondendo conchiudeva: "E perchè mi scrivete con
la Tullia accanto, non vorrei la leggessi similmente con essa accanto,
perchè amandola voi come femmina che ha spirito, perchè per bellezza
non lo merita, non vorrei mi potesse nuocere con qualcuno di quelli
ch'io nomino. Io non sono per ammonire Filippo Strozzi, ancorachè, se
le ammonizioni ricorregghino, non avete aver per male essere ammonito,
ma ho inteso di non so che cartelli e di sfide andate a torno che mi
hanno dato fastidio pensando che un par vostro, uomo di 43 anni,
voglia combattere per una femmina, e benchè io creda sareste così atto
all'arme come siete alle lettere ed a ogni altra cosa dove ponete la
fantasia, non vorrei di presente vi metteste a questo pericolo di
voler combattere per causa tanto leggiera; e vi ricordo che degli
uomini come voi ne nascono pochi per secolo; e questo non dico per
adulazione. Assettate le faccende vostre e poi tornate a rivederci".
Pare che il consiglio del Vettori riuscisse caro e salutare allo
Strozzi: in un cartello di sfida che conservasi in un codice
Rinucciniano, ed è di quell'anno stesso in vano si cercherebbe il suo
nome tra i sei campioni della Tullia [32].

Partita da Roma, la Tullia si recò certamente a Ferrara, ed ivi reduce
di Francia capitava poco dopo il Muzio; nel 1535 era a Venezia ove
nacque la sorella Penelope [33], e nel 1537 nuovamente a Ferrara
seguendo di pochi giorni l'arrivo in questa città della marchesa di
Pescara. Conobbe certamente allora il sanese Bernardo Ochino che
appunto nella quaresima avea predicato ivi con mirabile fervore, e gli
diresse il sonetto XXXV trattandolo poco cortesemente, e chiamandolo
arrogante, perchè avea dal pergamo fulminato "le finte apparenze, e il
ballo, e il suono", dono fatto da Dio agli uomini "ne la primiera
stanza". Nello stesso anno le accadde una strana avventura, narrata da
un Apollo novellista alla marchesa Isabella d'Este con lettera dei 13
giugno [34], e tale avventura servì mirabilmente per porla in buona
vista, formare quella reputazione di onesta che la fama e le
pasquinate avevano molto deteriorata, radunarle intorno un'eletta
schiera di poeti e gentiluomini che adulandola, corteggiandola,
facessero dimenticare il suo passato poco onorevole per riconoscere
solo in lei la poetessa, la letterata, la discendente di sangue reale:
e riuscì in massima parte; il Muzio e il Bentivoglio le profusero lodi
e adulazioni in rima e in prosa, e la Tullia era posta al di sopra di
Vittoria Colonna. Ancora una volta la cortigiana trionfava.

Da Ferrara la Tullia ritornò forse a Venezia, almeno così il _Dialogo_
dello Speroni fa credere; poi a Siena ove si accasò nel 1543 [35]. I
documenti senesi che riguardano la Tullia dànno a conoscere una
circostanza abbastanza seria per non essere lasciata senza esame e
cioè che ella era, legalmente almeno, figlia di Costanzo Palmieri
d'Aragona; ed infatti nell'atto di matrimonio è detta _Tullia Palmeria
de Aragonia_, ed in altro documento ancor più chiaramente "_Filia
quondam Constantii de Palmeriis de Aragona_". In base a tali
documenti, eliminando del tutto l'ipotesi che ella fosse stata
adottata da un Palmieri, conviene credere ad un matrimonio della
Giulia Ferrarese, al quale non possiamo dare, neppure per
approssimazione, una data qualsiasi. L'Aretino, il Domenichi, il
Franco che citano la Giulia e ne parlano spesso diffusamente, mentre
dànno particolari su altri amanti tacciono affatto di tale matrimonio;
neppure un barlume ne apparisce nelle rime della Tullia e nelle
lettere che di lei ci pervennero; parlando della propria famiglia dice
_mia madre, mia sorella, ed io_; tace il Muzio, che, pur dando la
paternità del cardinale d'Aragona alla Tullia, nulla impediva potesse
parlarne nell'egloga dedicata alla Penelope nata molti anni dopo; ne
tacciono assolutamente tutti i biografi. Ed apparisce del pari per la
prima volta, almeno così ci consta, una casata Palmieri che abbia
aggiunto il nome d'Aragona al proprio; rimangono tracce dei
Piccolomini-Aragona, dei Tagliavia-Aragonia, dei _de Aragonia_,
romani, ma nessuna dei Palmieri-Aragona. Questa casata non viene poi
più a luce nè sulla tomba della Penelope che porta solo il nome di
Aragona, nè nel testamento della Tullia ove non sono più mentovati nè
padre, nè madre, nè marito. Una volta ancora, innanzi all'arida
autenticità dei documenti, si oppone la tradizione, ferma, costante;
essa vuole la Tullia figlia del cardinale d'Aragona e nel fatto nulla
varrà a scemarla. Su questo padre più o meno putativo, che apparisce
quasi per sua disgrazia, molte sarebbero le supposizioni a farsi; era
forse un familiare del cardinale d'Aragona che acconsentì a sposare la
Giulia Campana a prezzo d'oro, o qualche vanitoso che a scapito del
suo amor proprio con l'acquisto della Tullia aggiunse al suo il casato
degli Aragonesi? in ogni modo è assolutamente da escludere che quel
_de Aragonia_ stia lì per fissaril luogo natio di quel buon Palmieri.
Non ci peritiamo rispondere a quesìti così ardui ed anche inutili;
bastano per noi tutte le testimonianze dei contemporanei a stabilite
che la poetessa fu, pure illegittimamente, del sangue d'Aragona.

Sembra che in Siena ella fosse perseguita da malevoli che l'accusarono
agli Esecutori Generali di Gabella di vestire e portare ornamenti
vietati alle meretrici dagli statuti del Comune; fu agitato per ciò un
processo nel febbraio del 1544, dal quale constando la vita onesta e
morigerata della Tullia, le fu permesso di vestire ed abitare al pari
di altre persone nobili ed oneste [36]. Non cessò per questo la
malevolenza contro la Tullia e nell'agosto dello stesso anno [37] fu
ancora denunciata per aver portato la sbernia il giorno di Pasqua, e
tra i denunziatori apparisce Ottaviano Tondi, novesco, causa di
torbidi in Siena per avere ucciso uno di parte popolare [38], e che la
Tullia pianse morto un anno appresso in un sonetto diretto al fratello
Emilio [39]. Certo ella ignorava il servizio che il buon novesco
aveva tentato di renderle.

Sullo scorcio del 1545 la Tullia se ne venne a Firenze ove contrasse
stretta amicizia col Varchi, col Martelli e parecchi altri, dei quali
ci rimasero testimonianze nelle rime e nelle lettere di lui edite dal
Biagi e dal Bongi [40]. E qui ancora doveva essere perseguitata dalle
severe leggi sui costumi e sugli _ornamenti et habiti degli huomini e
delle donne_. Il 19 ottobre 1546 il Duca Cosimo promulgava una di
quelle leggi [41], ma la Tullia che credeva oramai per la fama di
poetessa di non essere più compresa nel ruolo delle cortigiane, non se
ne diè per intesa, sin che nell'aprile dell'anno appresso fu invitata
dal Magistrato ad ottemperare alla legge mettendo sul vestito qual
cosa di _giallo_ che doveva servire a distinguerla dalle oneste
gentildonne. La Tullia ricorse a D. Pietro di Toledo nipote della
duchessa Eleonora, che la consigliò presentare alla Duchessa una
supplica unita ai sonetti a lei scritti da illustri letterati, a
significare l'errore del magistrato di giustizia nell'annoverarla tra
le cortigiane. Per correggere la supplica, se non per averla bell'e
fatta ricorse la Tullia al Varchi [42], ed il dabben uomo volentieri
si prestò a tanto urgente favore, e della Tullia non è forse nel
seguente documento che il nome solamente.

"Ill.ma ed Ecc.ma Sig.ra Duchessa,

"Tullia Aragona, umilissima servitrice di V. E. Ill.ma, essendo
rifugiata a Firenze per l'ultima mutazione di Siena, e non facendo i
portamenti che l'altre fanno anzi non uscendo quasi mai da una camera
non che di casa, per trovarsi male disposta così dell'animo come del
corpo, prega V. E. affine che non sia costretta a partirsi, che si
degni d'impetrare tanto di grazia dall'Eccell.mo ed Ill.mo S.or Duca
suo consorte, che ella possa se non servirsi di quei pochi panni che
le sono rimasi per suo uso, come supplica nel suo capitolo, almeno
che non sia tenuta all'osservanza del velo giallo. Ed ella, ponendo
questo con gli altri obblighi molti e grandissimi che ha con S. E.,
pregherà Dio che la conservi sana e felice".

La cortigiana ottenne favore presso la duchessa; Cosimo scrisse di suo
pugno sull'istanza "_Fasseli gratia per poetessa_"; e queste parole
sono autenticate dalla soscrizione di Lelio Torelli, ministro del
granduca. I luogotenenti del duca rilasciarono quindi all'Aragona, in
data 1 maggio 1547, copia della deliberazione nella quale riconoscendo
"la rara scientia di poesia e filosofia che si ritrova con piacere di
pregiati ingegni la detta Tullia Aragona venga fatta esente da tutto
quello a che ell'è obbligata quanto al suo abito, vestire e portamento
[43] ". Un anno appresso, e precisamente nell'ottobre, scriveva al
Varchi annunziandogli la sua partenza, gli mandava in dono _un paio di
colombi, due fiaschi d'acqua ed uno di malvagia, una saliera di
alabastro_, e da lui toglieva commiato per sempre con lettera che il
Varchi avrà certamente preso per buona moneta; partiva quindi per
Roma, dove il primo di febbraio del 1547 veniva a morte la sorella
Penelope, seguita poco appresso dalla madre. La Tullia abitava in
Campo Marzio nel palazzo Carpi, e nel libro della _Tassa fatta alle
cortigiane per la reparatione del ponte_ (Rotto) [44] consta che ella
pagava di pigione 40 scudi (in ragione tassata per scudi quattro) ed è
una delle cortigiane che pagava di più; poche giungono ai cinquanta
scudi, rare quelle che superano tal somma: evidentemente le condizioni
finanziarie della Tullia non erano troppo rilassate, e non crediamo,
come dubita il Bongi, che il poco profitto da lei ritratto in Firenze
ed il desiderio di far esordire la Penelope nella più vasta e ricca
scena di Roma fosse causa della sua dipartita di colà; nulla accenna
pertanto avere la Penelope esordito nella triste carriera, anzi
l'essere ella morta non ancora quattordicenne fa credere, magari con
un poco d'ottimismo, che il desiderio della Giulia Campana forse più
che della Tullia, se esistito, non rimase che semplice desiderio.

La Tullia visse certamente in Roma sino all'epoca di sua morte, che
avvenne il 12 o 13 marzo del 1556. Era andata ad abitare nel rione
Trastevere, in casa dell'oste Matteo Moretti da Parma, ed ivi il 2
marzo dello stesso anno dettava le sue ultime volontà al notaio
Virgilio Grandinelli[45] Morta la Tullia ed apertone il testamento
alli 14 di marzo, Pietro Ciocca in suo nome e per gli esecutori
testamentari mons. Antonio Trivulzio vescovo di Tolone e Mario
Frangipane, chiese all'auditore della Camera Apostolica un tutore per
il giovinetto Celio. Tale ufficio fu conferito a D. Orazio Marchiani
chierico pistoiese. Redatto l'inventario della roba lasciata dalla
Tullia si procede alla vendita secondo le sue volontà; gli ori e le
gioie furono acquistati dagli orafi Pompeo Fanetti a Santa Lucia della
Chiavica, Maurizio Grana piemontese e Francesco Alarçon spagnolo al
Pellegrino; la mobilia da Giovanni Battista della Valle fiorentino e
Francino Francini d'Arezzo rigattiere a Monte Giordano. A quest'ultimo
toccò in un con gli arnesi di cucina "una cassa vecchia nella quale
c'erano trentacinque libri tra volgari e latini di più et diverse
sorte, et tredici di musica tra usati, vecci, et stracciati et diverse
altre carte et libri già stracciati". Ai singoli legati fu adempiuto
con rogiti speciali; in uno di questi Celio non solo _herede_ della
Tullia ma _figliuolo_ è chiamato. Di questo Celio e del Marchiani
nessuna notizia giunse sino a noi; forse lasciarono Roma, ed il
tutore, pistoiese, riedendo alla nativa citta, avrà menato seco il
fanciullo: è certo che di essi perdesi la traccia dopo la morte della
Tullia, nè le carte dell'archivio romano, esaminate dal cav.
Corvisieri, ci possono dire quale sia stata la sorte del fanciullo.
Che il padre fosse lo stesso Ciocca come altri supposero, non
crediamo, parendoci allora superflua la nomina di un tutore, e dovendo
in tal caso ammettere che il Celio fosse nato in Roma dopo il 1547,
cosa molto improbabile e per le condizioni fisiche della Tullia e per
l'appellativo di _giovinetto_ che viene dato al Celio, come ancora non
lo supponiamo figliuolo del Guicciardi. L'Aragona conobbe forse il
Ciocca in Venezia, essendo questo al servizio del Cornaro, ma a tale
epoca non può risalire la nascita di Celio; dubitiamo anzi, sempre
però su deduzioni, che la nascita di questo fanciullo fosse causa
della dipartita dell'Aragona da Firenze.

La Tullia era di alta statura, non bella ma piacevole [46], gli occhi
bellissimi e splendidissimi, e "nei movimenti loro una certa forza
vivace che parea gittassero fuoco negli altrui cuori", forza provata
dal Muzio che cantava:

....occhi belli, occhi leggiadri, occhi amorosi e cari,
    più che le stelle belli e più che il sole,

i capelli finissimi di un biondo oro, esaltati spesso da' suoi
ammiratori, tra i quali il cardinale Ippolito de' Medici, al quale la
porpora non impediva di bruciare innanzi alla bella Aragonese il suo
granello d'incenso cantando:

   se 'l dolce folgorar de i bei crini d'oro,
   e 'l fiammeggiar de i begli occhi lucenti,
   e 'l far dolce acquetar per l'aria i venti
   co 'l riso, ond'io m'incendio e mi scoloro...

Nella pinacoteca Tosio di Brescia è conservato il ritratto della
poetessa dipinto da Alessandro Bonvicino detto il _Moretto_, altri due
veggonsi nell'edizione delle _Rime_ fatta dal Bolifon e nel vol. XII
del _Parnaso italiano_. Di questi ultimi quale sia il valore non
possiamo certo dire.

Tra i molti adoratori che ebbe a vantare la Tullia, Girolamo Muzio fu
certo uno dei più costanti e veritieri, e benchè quando fu preso
d'amore avesse oltrepassati i quarant'anni, si sente dalle sue rime
che quell'affetto era serio e sincero, e che i versi esprimevano molto
meno di quel che il cuore sentiva; dedica alla Tullia le sue egloghe
_Amorose_ che in realtà parlano assolutamente di lei sola, e del suo
amore non cela nè gli ardenti desideri nè le bramate conquiste. Con un
verismo poco desiato certo da qualsiasi donna, anche abituata alla
rilassatezza della vita di Ferrara, egli diceva alla Tullia:

   Vien, Ninfa bella, e fra le molli braccia
   raccogli quel che con le braccia aperte,
   disioso t'aspetta, e nel tuo grembo
   ricevi lieta l'infocato amante;
   stringi e 'l bramoso amante, e strette aggiungi
   le labbra a le sue labbra, e 'l vivo spirto
   suggi de l'alma amata, e del tuo spirto
   il vivo fiore ispira a le sue brame.
   Le belle membra tue, morbide e bianche,
   ad Amor le consacra; ed al tuo amante,
   qual vite ad olmo avviticchiata e stretta,
   con lui cogli d'amore i dolci frutti.

Ma ben presto il Muzio recatosi a Milano in missione per il Duca
Ercole d'Este, fu obliato, almeno per del tempo, e sostituito dal
Bentivoglio; passata poi la Tullia da Ferrara a Venezia, Bernardo
Tasso prese il posto dei precedenti, almeno così ci lascia credere lo
Speroni che nel suo _Dialogo_ la introduce "a far l'amore con lui,
presenti ed accettanti Nicolò Grazia e un altro spasimante Francesco
Maria Molza"; indi a Firenze variò tra il Varchi, Ippolito de' Medici,
il Tolomei, il Fracastoro, il Martelli, il Lasca, il Mannelli e lo
Strozzi.

Vario e non sempre imparziale fu il giudizio dei contemporanei e dei
posteri verso l'Aragona; aspro e satirico spesso sino a dare diritto
di vilipenderla all'Aretino [47] e al Razzi [48]; buono e cortese
ancora, come le testimonianze del Nardi e del Muzio. Il Nardi,
tradotta in lingua toscana un'orazione di M. T. Cicerone (Venezia
1536) ne indirizzava un esemplare a Gian Francesco della Stufa con
incarico di presentarlo alla Tullia _che per sè stessa oggi
dirittamente da ogni uomo è giudicata unica e vera erede così del nome
e di tutta la tulliana eloquenza_; Girolamo Muzio che si consolò del
matrimonio della Tullia sposando circa il 1550 una damigella d'onore
di Vittoria Farnese duchessa d'Urbino, nella lettera dedicatoria
premessa al _Trattato del matrimonio_, scriveva: _Già avviso di vedere
in voi quella donna la grazia della cui vergogna, come si legge
nell'Ecclesiastico [49], è più che oro preciosa... Tale avviso che
dovete esser voi facendo in tal guisa al mondo manifesto che della
vostra passata vita ne è stata cagione necessità, et di questa la
vostra libera volontà: che nel passato vi ha trasportata fortuna e che
hor vi governa la vostra virtù_.

Frutto d'amore, ella visse sacra all'amore e nulla varrebbe a scusarla
della poca onestà della sua vita; ma se è pur vero che gli abbietti
trionfando della loro caduta trovano i buoni che li ricoprono,
concediamo a lei le attenuanti dell'esempio: e di esempio ne ebbe a
sufficienza, e per l'ambiente viziato nel quale nacque e visse, e
nella stessa madre che allegramente dava alla luce figliuoli sino al
1535 e con la massima indifferenza li intitolava d'Aragona dopo sedici
anni che il povero cardinale era andato all'altro mondo.

* * *

Tenuto conto delle condizioni in cui svolgevasi la poesia nel XVI
secolo, le rime dell'Aragona non mancano certo di pregio; quantunque
ancor essa che "volle avere il suo canzoniere [50]" non eviti quella
freddezza che nasce da ogni ripetizione, quella noia che s'ingenera
dalla descrizione di una passione misurata su i precetti rettorici e
smentita dal fatto e dai costumi. La Tullia fu petrarchista della
miglior acqua, e non poteva certo essere altrimenti; il Petrarca era
l'idolo al quale si prostesero quasi tutti i rimatori del cinquecento
ed il modello su cui si formarono, ricavando stima maggiore chi
imitasse più servilmente il cantore di Laura, rubandone al tempo
stesso il pensiero e la forma. Tutte le cortigiane letterate del
cinquecento furono petrarchiste, se per altri il Petrarca era
l'oracolo del purismo, per esse non rappresentava che la teorica
dell'amore; quest'amore ideale o platonico, di Venere celeste, era
cantato su tutti i toni, salvo poi ad avere, di altro amore, una più
ampia e sicura conoscenza, e tale influenza, per donne quali
l'Aragona, la Franco, la Stampa è spiegata dalla stessa relazione del
petrarchismo con la cortigianeria. Un Petrarchino di piccolo formato,
di edizione elegante era indispensabile al cortigiano effeminato e
strisciante, i leggiadri cavalieri di Roma mostravansi per via
"andando soavi soavi co' loro famigli a la staffa, su la quale
tenevano solamente la punta del piede, col Petrarchino in mano,
cantando con vezzi [51] ", ed i vagheggini più aridi e stucchevoli,
appena ricevuto un sorriso della donna amata correvano "a casa a
comporre una sestina, un madrigaletto, dove il cieco d'Adria non
s'accorge che la mariuola gli ha furfato in versi, senza essere
discoverta da nessuno". Dell'amore teoretico il Petrarca era il gran
maestro per pratica e per scienza; il suo canzoniere si allontana da
quell'amore pratico del cinquecento che si svolge in brutale
sensualità, e in una brama di appetiti animali trascinarono la società
nella più completa dissolutezza, nelle forme più sozze delle
aberrazioni e del vizio; esso risponde all'amore intellettuale,
richiesto dall'umanesimo, che veniva considerato quale anello di
congiunzione con l'amore divino, e della cui infinità tratta l'Aragona
in un suo dialogo [52]. Al contrario della Franco che canta l'amore
dei sensi, l'Aragona è tutto ideale, tutto spiritualismo; i suoi
affetti vogliono rasentare il cielo, e solo raramente trovasi qualche
accenno alla triste sua vita; è invasa dalla manìa di passare ai
posteri insieme ai letterati che ella canta, cerca ogni maniera di
ricoprire la cortigiana con la poetessa, ed eleva i suoi canti
indistintamente a tutti, principi e cardinali, letterati e soldati,
uomini serii e burloni quali il Lasca; per lei l'uomo, essere animato,
è nulla: la fama di un uomo, il tutto; il solo affetto per il giovane
Mannelli si può credere sincero, tutte le altre proteste che inficiano
le rime e quei sonetti che cambiato indirizzo, giravano d'adoratore in
adoratore in edizioni stereotipe e consolavano tanto il Muzio che il
Martelli [53], fanno a buon diritto dubitare di tutte queste
espansioni cantate così altamente e serenamente. E la manìa
dell'Aragona è anche spiegabile in altro senso. Cessate le seduzioni
della bellezza tentava con l'arte di riunire la compagine di quegli
adoratori che si venivano allontanando, e con la musica, il canto, le
lettere cercare di sostenere i bisogni della casa: le sue rime sono
spesso forzate, e la eco dell'onda classica da Orazio a Virgilio, da
Dante a Petrarca viene spesso ad alimentare l'agonia di una vita
finita. Delle imitazioni al Petrarca, evidentissime e nel pensiero e
nello stile, ne citeremo solo alcune poche a titolo di saggio [54].

Sonetto X, v. 12-15:

 E se quassù giungesser gli occhi vostri,
 vedendo fatto me novo angeletto
 qui bramareste, e non vedermi in terra.
              (PETRARCA, Madrigale III, v. 1-2).


Sonetto XXXI, v. 7-9:

 E l'alto Iddio lodar ben spesso suole,
 dopo l'aspra fortuna,
 spaventato nocchiero al porto intorno.
            (PETRARCA, Sonetto C, v. 1-2).


Sonetto XXXVIII, v. 12-14:

 Non contenda rea sorte il bel desìo,
 che pria che l'alma del corporeo velo
 si scioglia, sazierò forse mia brama.
            (PETRARCA, Sonetto IX, v. 12-14).


Sonetto XLII.

 S'io 'l feci unqua, che mai non giunga a riva
 l'interno duol, che il cuor lasso sostiene;
 s'io 'l feci, che perduta ogni mia spene,
 in guerra eterna di vostr'occhi viva.
                    (PETRARCA, Canzone XV)


Sonetto XLIV, v. 13-14:

..volgendo a Roma 'l viso e a lei le spalle,
 se vuol l'alma trovar col corpo unita.
                    (PETRARCA, Sonetto LXXXI, v. 3-4).


Sonetto LI, v. 12-14:

 Benchè vostro valor eterna fama
 per sè vi acquisti, caro mio signore,
 quanto 'l sole gira e Battro abbraccia e Tile.
               (PETRARCA, Sonetto XCVI, v. 9-11).

Della Tullia giunsero a noi un _Dialogo dell'infinità di amore_ [55],
giudicato "uno dei dialoghi più vivi che noi abbiamo, nell'ordine più
basso degli scritti letterari del secolo decimosesto..... per una
certa franchezza e disinvoltura, e anche talvolta per una certa
saporita fiorentinità ch'ella attinse per avventura dal suo consorzio
coi fiorentini e singolarmente col Varchi", ed un poema in ottava
rima: _il Meschino e il Guerino_ [56]. Il Crescimbeni fa di questo
poema elogi sperticati, dicendo che "nella tessitura può paragonarsi
all'Odissea di Omero [57] ", esso però è così inverosimile e contrario
tanto alla storia, alla cronologia, alla geografia, e con buona pace
dell'ottimo abate, anche al buon senso, che non sappiamo invero
trovarvi alcuna analogia con l'opera dell'Omero; lo stile ne è
trascurato, e spesso conviene lavorare di serio proposito per
raccapezzare il senso di qualche ottava, i canti, trentasei in tutto,
appaiono disordinati e spesso senza nesso tra loro. La Tullia avverte
che trasse il poema da un vecchio romanzo spagnuolo in prosa, ma
certamente ella si servì di una traduzione e non del testo originale
che vuolsi scritto in italiano [58]. L'Aragona nella prefazione di
questo poema si scaglia contro il Boccaccio, e mentre lo compassiona
perchè non seppe eleggere il verso a forma del _Decamerone_, lo accusa
che _tante sue scellerate_ novelle scritte con altrettante _scellerate
parole_, servendo solo a demoralizzare e rendere ridicoli i più santi
vincoli della società, siano impossibili a leggersi, senza frutti
nocivi, da maritate e nubili, vedove e monache, e persino cortigiane.
Questi scrupoli che parrebbero curiosi nella Tullia, sono da ella
medesima spiegati, non essendo cosa nuova che ad una donna per
necessità o per altra mala ventura sua sia avvenuto di cadere in
errore del corpo suo e tuttavia si disconvenga non men forse a lei che
alle altre l'essere disoneste e sconcie nel parlare e nelle altre
cose; ed ella, contrariamente al Boccaccio, vuole scrivere per tutti,
il suo poema potrà essere dato in mano alla più pudica donzella senza
alcun pericolo, volendo con esso porre un debole argine a
quell'invadente corruttela che ogni dì spandeasi con maggior forza e
brutalità, e pur sempre per opera dei letterati ed anche degli
_umanisti_. L'idea della Tullia, se togliesi quella sfuriata contro
l'umanismo che proprio non aveva a che fare, non era cattiva e
sinceramente credette averla attuata col suo _Guerino_; dichiarandosi
di tutto debitrice a Dio solo "dal quale solo viene ogni bene e da cui
solo io riconosco questa gran grazia d'avermi in questa mia età non
ancor soverchiamente matura, ma giovenile e fresca, dato lume di
ridurmi col cuore a lui e di desiderare e operare quanto posso che il
medesimo facciano tutti gli altri così uomini e donne". Ma Dio non
aveva proprio nulla a che vedere col _Guerino_, ed è proprio il caso
di ripetere che quantunque il diavolo si vesta da frate, quattro dita
di coda gli spuntano sempre sotto la tonaca; infatti ciò che la Tullia
narra del cavaliere di Durazzo, di Brandisio e della figlia
dell'albergatore nel canto VIII [59], e di Pacifero innamorato di
Guerino nel canto X [60], non è roba atta a far mettere il poema
vicino al libro di devozione di una vergine o di una monaca. E pur
tale era lo scopo.

In produzioni di uno stesso autore, apparse anche a distanza di molti
anni l'una dall'altra, ritrovasi sempre qualche analogia, qualche
difetto, alcun che di speciale, quasi direbbesi di proprio, che le
riavvicina e riunisce; nulla di ciò tra il _Guerino_ e le _Rime_, anzi
una succinta critica forse allontanerebbe molto l'uno dalle altre.
Quantunque non sia il caso ora di formare tale confronto ed esaminare
a fondo il _Guerino_, non possiamo esimerci dal notare come la
prefazione posta innanzi al poema ci abbia fatto triste impressione,
fino a crederla apocrifa per ragioni che crediamo buone od almeno
meritevoli di esame. Il Ranieri che pubblicò il poema nel 1560 dicendo
di averne curato l'edizione sul manoscritto originale _già da parecchi
anni da lui posseduto_, non fa parola dell'Aragona che era morta nel
1556, e si profonde solo in ampie ed ampollose proteste cercando di
formare una dedica alla quale, per essere di qualche valore, manca
solo un poco di senso comune. E quel _parecchi_, posto lì per indicare
un lasso di tempo non superiore ai tre anni è per lo meno superfluo:
nè più lungo spazio di tempo crederemmo possibile ammettere perchè è
abbastanza ragionevole il supporre che l'Aragona avesse sino alla
morte conservato presso di sè quel lavoro. Il ricordo ancora che i
libri e le carte andarono in mano di un modesto rigattiere, non è
privo di valore; se il manoscritto del _Guerino_ era tra la roba
acquistata da Francino Francini, uomo probabilmente ignorante e privo
di criterio letterario, la sorte del manoscritto era assicurata:
finiva in qualche bottega di droghiere o salumaio. Converrebbe adunque
credere che o il manoscritto fosse tra le carte devolute a Celio
figliuolo dell'Aragona o che la Tullia ne avesse fatto un dono al
Ranieri qualche anno prima; ma ancora queste due supposizioni
rasentano l'assurdo. Il testamento della Tullia che pure è tanto
minuzioso e preciso nei lasciti e legati, non accenna a carte ed altri
documenti spettanti al Celio; nè la Tullia poteva donare il
manoscritto al Ranieri o ad altri che a lui lo passassero, perchè dal
momento che ne aveva condotto a termine anche la prefazione, era certo
desiderio suo di darlo alle stampe, e per il nome che godeva e
l'appoggio dei letterati che facevanle corona non sarebbe stato
difficile trovare un tipografo che ne assumesse l'edizione. Se
dobbiamo pur credere alla dichiarazione della Tullia di avere composto
il poema "in età ancor giovenile e fresca", quando erasi decisa di
darsi a Dio, conviene di necessità ammettere che ella l'avesse scritto
in Siena poco appresso il suo matrimonio col Guicciardi, o in Firenze;
mai in Roma ove tornando per l'ultima volta nel 1547 non era più in
età giovenile e fresca, e l'essere ascritta nel ruolo delle cortigiane
pubbliche non era il migliore indizio dell'essersi data a Dio. Anche a
questa ipotesi si oppone una seria obbiezione. Era possibile
all'Aragona dare ad intendere agli eruditi, massime fiorentini, di
aver tratto il _Guerino_ da un romanzo in prosa spagnuolo? Pure ciò
afferma nella prefazione, e se il poema non corrisponde esattamente al
_Guerino_, in prosa, romanzo cavalieresco del ciclo della Tavola
Rotonda, è indiscutibile che da questo ne trasse in massima parte le
idee. Nessuno ignora la rinomanza che il _Guerino_ ebbe nei secoli XV
e XVI; all'epoca dell'Aragona ne erano già state fatte sei edizioni
[61], ed è certo sopra una di queste che fu condotta la riduzione in
rima. In conclusione non rifiutiamo al _Guerino_ la maternità
dell'Aragona, la sua differenza con le _Rime_ non è prova sufficiente
a porre dei dubbi; respingiamo però assolutamente quella prefazione
che non è, nè poteva essere della Tullia.

Per la ristampa delle rime abbiamo usato l'edizione prima, Venezia
1547 (A) servendoci per le varianti delle edizioni di Venezia, 1549,
(B): ivi, 1560 (C): Napoli, 1593 (D): e delle _Rime_ raccolte dalla
Bergalli-Gozzi (E): le abbiamo fedelmente riprodotte, salvo allorchè
gli errori erano evidenti, respingendo allora in nota la lezione
originale; quando le varianti assumevano importanza assoluta, come per
i componimenti tratti dai codici vaticano magliabecchiano, abbiamo
stimato necessario riprodurre entrambe le lezioni avvertendo di
collocarle l'una a lato dell'altra.



_Dalla R. Biblioteca Vallicelliana

maggio 1891._

ENRICO CELANI


NOTE:

[1] =Graf A.= _Atraverso il cinquecento_. Torino, Loescher, 1888, pag.
   215 e seg.--Nell'_Hermaphroditus_ del =Panormitano= (1471)
   _(Quinque illustrium postarum_, =Antonii Panormitani=, etc. _lusus
   in Venerem_, Parigi, 1791), la cortigiana non apparisce ancora,
   come neppure ne è parola in =Giano Pannonio= (1472) _Poemata_,
   Trajecti ad Rhenum, 1784.

[2] "Avetemi inteso voi donne? Che alla barba di tutti i sodomiti io
   voglio tenere colle donne, e dico che la donna è più pulita e
   preziosa della carne sua che non è l'uomo; e dico, che se egli
   tiene il contrario, egli mente per la gola" (=S. Bernardino=,
   _Prediche volgari_, ed. =Bongi=, pag. 380).

[3] Le opere fatte da lui circa la osservanza dei buoni costumi furono
   santissime e mirabili, nè mai in Firenze fu tanta bontà e
   religione quanta a tempo suo... la sodomia era spenta e
   mortificata assai; le donne in gran parte lasciati gli abiti
   disonesti e lascivi; i fanciulli quasi tutti lavati da molte
   disonestà e ridutti ad uno vivere santo e costumato... portavano i
   capelli corti e perseguitavano con sassi e villanie gli uomini
   disonesti e giocatori e le donne di abiti troppo lascivi.
   (=Guicciardini=, _Storia, fiorentina_, cap. XVII)

[4] =Piccolomini A.= _Istituzione di tutta la vita, dell'uomo nato
   nobile et in città libera_. Venezia, 1552.

[5] =Garzoni T.= _La piazza universale di tutte le professioni del
   mondo_. Venezia, 1587, discorso LXXIV, pag. 597.

[6] =Garzoni T.= Op. Cit., discorso LXXV, pag 605.

[7] Giovanni Burchkardt maestro di cerimonie di Alessandro VI narra
   come l'ultimo d'ottobre 1501 cenarono nel palazzo apostolico, col
   Valentino, cinquanta cortigiane, le quali dopo cena danzarono
   ignude e diedero altre prove di valentia in presenza di Alessandro
   VI e della Lucrezia Borgia. "In sero fecerunt cenam cum duce
   Valentinense in camera sua, in palatio apostolico, quinquaginta
   meretrices honeste cortegiane nuncupate, que post cenam
   coreaverunt cum servitoribus et aliis ibidem existentibus, primo
   in vestibus suis, denique nude. Post cenam posita fuerunt
   candelabra communia mense in candelis ardentibus per terram, et
   projecte ante candelabra per terram castanee quas meretrices ipse
   super manibus et pedibus; unde, candelabra pertranseuntes,
   colligebant, Papa, duce et D. Lucretia sorore sua presentibus et
   aspicientibus. Tandem exposita dona ultima, diploides de serico,
   paria caligarum; bireta, et alia pro illis qui pluries dictas
   meretrices carnaliter agnoscerent; que fuerunt ibidem in aula
   publice carnaliter tractate arbitrio praesentium, dona distributa
   victoribus". _Diarium sive rerum urbanorum commentarii_, Parisiis,
   1883-1885, tom. II, pag. 443, tom. III, pag. 167).

[8] =Armellini M_.= Un censimento della città di Roma sotto il
   pontificato di Leone X tratto da un codice inedito dell'Archivio
   Vaticano_. Roma. Befani, 1887.

[9] Cfr. =Bandello=, _Novelle_, parte III, nov. XLII; =Valery=,
   _Curiosités et anecdotes italiennes_, Paris, 1842; =Giovio P.=,
   _De piscibus romanis_, cap V; =Forcella V.=, _Iscrizioni delle
   chiese di Roma_, Roma, 1878. Per l'epitafio che dicesi posto sulla
   sua tomba crediamo siasi roppo facilmente accettata la tradizione
   che fosse in S. Gregorio; oltre la stranezza della lapide che
   certo non faceva bella figura in una chiesa, è oramai accertato
   che se pure l'epitafio fu composto non fu mai elevato sulla tomba
   dell'Imperia.

   Di lei scrive il Bandello (op. cit, nov. XLIII): "Tra gli altri
   che quella (Imperia) sommamente amarono fu il signor Angelo del
   Bufalo, uomo della persona valente, umano, gentile e ricchissimo.
   Egli molti anni in suo poter la tenne, e fu da lei
   ferventissimamente amato, come la fine di lei dimostrò. E perciò
   che egli è molto liberale e cortese, tenne quella in una casa
   onoratissimamente apparata con molti servidori, uomini e donne,
   che al servizio di quella continovamente attendevano. Era la casa
   apparata e in modo del tutto provvista, che qualunque straniero in
   quella entrava, veduto l'apparato ed ordine de' servidori, credeva
   che ivi una principessa abitasse. Era tra l'altre cose una sala e
   una camera sì pomposamente adornate, che altro non v'era che
   velluti e broccati, e per terra finissimi tappeti. Nel camerino,
   ov'ella si riduceva, quand'era da qualche gran personaggio
   visitata, erano i paramenti che le mura coprivano, tutti di drappi
   d'oro, riccio sovra riccio, con molti belli e vaghi colori. Eravi
   poi una cornice tutta messa a oro ed azzurro oltremarino,
   maestrevolmente fatto, sovra la quale erano bellissimi vasi di
   varie e preziose materie formati, con pietre alabastrine, di
   porfido, di serpentino e mille altre specie. Vedevansi poi attorno
   molti cofani e forzieri riccamente intagliati, e tali che tutti
   erano di grandissimo prezzo. Si vedeva poi nel mezzo un tavolino,
   il più bello del mondo, coverto di velluto verde. Quivi sempre era
   o liuto o cetra con libri di musica, ed altri istromenti musici.
   V'erano poi parecchi libretti volgari e latini riccamente
   adornati. Ella non mezzanamente si dilettava delle rime volgari,
   essendole stato in ciò esortatore, e come maestro il nostro
   piacevolissimo messer Domenico Campana detto _Strascino_; e già
   tanto di profitto fatto ci aveva che ella non insoavemente
   componeva qualche sonetto o madrigale". Ed a proposito del celebre
   camerino seguita narrando come essendo andato a farle visita
   l'ambasciatore di Spagna, e avendo bisogno di sputare, trovò che
   il luogo meno improprio a ciò fare era il viso del servitore che
   gli stava alle spalle.

[10] =Cugnoni G.= _Agostino Chigi il Magnifico_, Livorno, Vigo, 1879.

[11] =Aretino P.= _Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Ludovico
   puttaniere_, Cosmopoli, 1660, pag. 442.

[12] E poeti e letterati non isdegnavano la compagnia della cortigiana
   (=Burchkardt=. _Diarium_ etc., ediz. cit. tom. III, pag. 209);
   Marco Bracci in una lettera ad Ugolino Grifoni segretario di
   Cosimo I scrive nel novembre 1557 che giunto in Perugia il
   cardinale Caraffa nipote di Paolo IV e il cardinal Vitelli "dopo
   cena pubblicamente fece andare in palazo tutte le putane che a
   quelli tempi se trovavano in Perugia quale furono in tutte
   quattordici; e presene per sè una e una per el cardinale Vitello
   el resto acomodoli a la sua famiglia. (=Fabretti=, _La
   prostituzione in Perugia nei secoli XIV e XV_, Torino, 1885, pag.
   46).

[13] =Graf A.= op. cit., pag. 350.

[14] _Theatro delle donne letterate_, pag. 296.

[15] _Istoria della volgar poesia_, vol. IV, pag. 67.

[16] _Storia e ragione d'ogni poesia_, vol. II, pag. 235.

[17] _Gli scrittori d'Italia_, vol. I, par. I.

[18] _Gli scrittori del regno di Napoli_, tomo III, parte I.

[19] Il Vigo pubblicava nel 1885 per nozze Grassi-Rinaldi il sonetto
   della Tullia all'Ochino (nella nostra edizione a pag. 39), e nella
   breve prefazione la dice napoletana.

[20] Presso il =Mazzuchelli=, loc. cit.

[21] _Dell'infinità d'amore_di =Tullia Aragona= edito dal
   =Canestrini=, Milano, 1867.

[22] _Bibliografia romana_, Roma, Botta, 1880, vol. I, pag. 13.

[23] Vedi a pag. 189, versi 27 e seg.

[24] La _Jole_ dell'egloga del Muzio è la Giulia ferrarese, anch'essa
   etèra famosa e della quale il =Domenichi= (_Facezie, motti e
   burle_, Venezia, 1558, pag. 28) ricorda un motto arguto e mordace.
   Papa Leone X aveva fatto aprire una nuova strada in Roma
   lastricata dai tributi che le puttane pagavano, nella quale
   scontrando la Giulia ferrarese una gentildonna l'urtò un poco.
   Allora la gentildonna adirata cominciò a dirle villania. Rispose
   la Giulia: "Madonna, perdonatemi, ch'io so bene che voi avete più
   ragione in questa via che non ho io". Nel citato censimento di
   Roma (pag. 42) ella apparisce come abitante nel rione Campo
   Marzio, in una casa sotto la parrocchia di S. Trifone di proprietà
   dell'Ordine Agostiniano.

[25] Lo Zilioli che fu il più diffuso biografo dell'Aragonese le
   assegna per padre Pietro Tagliavia, di Aragona, arcivescovo di
   Palermo e cardinale di Santa Chiesa; e tale versione venne accolta
   dal Mazzuchelli, dal Tiraboschi, dal Cinguenè e dal Camerini. Ora
   nè quando il Muzio scrisse l'egloga alla Tullia nè quando
   l'Aretino nel dialogo tra il Zoppino e Ludovico, dialogo scritto
   certo prima del 1539, dice _cardinale_ l'amante della Giulia
   ferrarese, il Tagliavia era stato assunto alla porpora. Lo fu solo
   sotto Giulio III l'anno 1553; in tal guisa viene esonerato di sua
   paternità poco lodevole. Escluso costui, l'unico cardinale che
   cronologicamente può dirsi padre della Tullia è Luigi d'Aragona,
   ascritto al sacro Collegio da Alessandro VI nel 1493, promulgato
   solo nel 1497. Nato in Napoli nel 1474 morì in Roma l'anno 1519 e
   fu tumulato nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, ove vedesi
   tuttora il suo sepolcro con iscrizione fattagli fare dal cardinale
   Franciotto Orsini suo esecutore testamentario.

[26] =Biagi G.= _Un'etèra romana, Tullia d'Aragona_. (_Nuova
   Antologia_. Serie III, vol. IV, 16 agosto 1886)

[27] Dice il Muzio:

     Visse in tenera etate presso a l'onde
     del più bel fiume che Toscana onori.

   (_Sonetto I_, v. 12-13, pag. 69).

[28] =Aretino P.= _Ragionamenti_. loc. cit.

[29] =Zilioli=, in =Mazzucchelli=, loc. cit. Molto diverso è però il
   ritratto che ne fa il Giraldi, e dall'odio che palesa parlando
   della Tullia fa se non credere, almeno dubitare che invano abbia
   picchiato alla porta della bella cortigiana. "Non è alcuno di voi,
   per quanto io stimo, _egli dice_, il quale non habbia conosciuto
   Nana, così detta non perchè ella sia piccola della persona, ma per
   mostrare la sua sconvenevole et non proportionata grandezza, con
   voce di contrario sentimento. Questa di casa Aragona si fa
   chiamare quantunque io intenda che di madre vilissima e di quella
   medesima vita che ella è in alcune paludi sie nata senza che la
   madre le habbia mai saputo dire chi suo padre si fosse. Venuta
   adunque nella nostra città, ove hora le pari a lei, per lo mal
   costume del nostro secolo, sono in più abondanza che non si
   converrebbe, si diè a fare guadagno di sè disonestamente,
   allettando i giovani con quegli adombrati colori di virtù, di che
   innanzi dicemmo. Et non pure traheva costei a sè i giovani con
   simili arti, i quali per lo più sono di poca levatura, ma così
   toglieva ella il senno ad alcuni huomini maturi e scientiati, che
   col promettere loro di lasciarli godere di lei, qualunque volta
   danzassero mentre ella toccava il leuto, facevano scalzi la
   resina, o la pavana, o quale altra sorta di ballo più l'era grato
   et poscia beffandoli li lasciava del promesso scherniti.
   (_Ecatommiti_, nov. VII).

[30] _Passione d'amore di mastro Pasquino per la partita della signora
   Tullia e martello di amore delle povere cortigiane di Roma con le
   allegrezze delle bolognesi._(=Tiraboschi=, Stor. letter. ital.
   vol. VII, pag. 1172). Di pasquinate alla Tullia o nelle quali ella
   sia mentovata non ci consta che il _Trionfo della lussuria di
   mastro Pasquino_stampato nel 1537, ove però è ricordata la Tullia
   solo come molto _favorita_. Il Biagi ricorda ancora lo sconcio
   sonetto: "_Mentre alla Tullia la madre ragiona_" firmato F. C. che
   conservasi in due codici Magliabecchiani.

[31]  =Biagi G.= op. cit.

[32] "Considerando gli infrascritti cavalieri la virtù solamente esser
   quella che concede immortalità ad ogni animo generoso, liberandolo
   con la eterna fama da ogni oblivion che ne la labile e caduca
   memoria de li uomini aver loco possa, e che quella da ciascuno
   meritamente deve esser amata, reverita ed a quel sommo grado che
   per le umane forze sia possibile esaltata e tanto più quanto ella
   in persona si ritruovi di ogni altra grazia, e dono di fortuna e
   natura dotata; per tanto come veri fautori ed amatori di quella e
   per la verità della quale ogni nobil core deve sempre prender la
   protezione, e, quando in parte alcuna celarsi e occulta restarsi
   la veda, produrla in luce e qual chiaro sole farla a tutti
   risplendere ed apparire: non da alcuna altra passione o fine mossi
   ed indotti, si offeriscono non pregiudicando alle onorate leggi de
   la militar disciplina, a tutto il mondo, per un giorno
   valorosamente sostenere che la loro signora e padrona la Ill.ma
   S.ra Tullia de Aragonia per le infinite virtù quali in lei
   risplendono è quella che più merita che tutte le altre donne de la
   preterita, presente e futura etate; ed acciò che qualunque, de la
   sua immortal gloria invidioso, diversamente o parlasse o sentisse,
   possa presto certificarsi e risolversi; declarono detto
   sostenimento, doversi intendere totalmente secondo l'ordine de
   torniamenti de li antiqui e gloriosi cavalieri; e così gli
   inestimabili meriti de la prefata signora, se pure non fussino a
   sufficenza noti e chiari, secondo il dovere si manifesteranno a lo
   ardire e valor de li suoi servitori, similmente per tale occasione
   più celebri e palesi saranno, onde ciascuno poi non dubitano che
   confessare sarà costretto, sì come a loro non ritrovarsi cavalier
   di virtù superiori, così a la prefata signora pari o simile non
   esser mai stata o potere essere nei secoli futuri". I sostenitori
   del valore della Tullia erano Paolo Emilio Orsini, Accursio
   Mattei, Brunoro Neccia, Alberto Rippe, Marco da Urbino, e Bernardo
   Rinuccini.

[33] Il Muzio nell'egloga VI del IV libro intitolata _Argia_, dice che
   la Penelope ebbe per patria

     l'orribil Adria e que' secreti stagni
     che le palustri lor superbe canne
     cercan di pareggiar ai nostri allori.
     Là per quelle contrade umide e salse
     a la dolce e vezzosa fanciulletta
     i lascivi delfin festosi giri
     tessean saltando intorno; a la sua culla
     le Nereidi portavano e i Tritoni
     conche da i marin liti e fresche perle.

   E più sotto lo stesso Muzio ci fa sapere come da Venezia muovesse
   con la madre e la Tullia per Ferrara.

     Indi pargoleggiar su per le rive
     fu vista un tempo del gran re de' fiumi;
     poi come la guidava il suo destino
     varcati d'Apennino i duri gioghi
     tenne lunga stagione adorni e lieti
     i poggi d'Arbia e le campagne d'Arno.

   La sorella della Tullia morì di 13 anni ed 11 mesi nel febbraio
   del 1549 e fu sepolta nella chiesa di S. Agostino, innanzi
   all'altar maggiore. L'iscrizione sepolcrale è riportata dal
   =Galletti= e dal =Forcella=; in essa è chiamata Penelope
   =Aragona=, quasi la Giulia ferrarese per essere un tempo stata
   l'amante di un cardinale di casa Aragona avesse il diritto di
   chiamare Aragonesi anche i figliuoli nati parecchi lustri dopo che
   il buon cardinale aveva reso l'anima a Dio.

[34] Riportiamo per brevità solamente il brano della lettera alla
   Isabella d'Este che più particolarmente riguarda la Tullia. "V.
   Ecc. intenderà come gli è sorta in questa terra una gentil
   cortegiana di Roma, nominata la S.ra Tullia la quale è venuta per
   istare qui qualche mese per quanto s'intende. Questa è molto
   gentile, discreta, accorta et di ottimi et divini costumi dotata;
   sa cantare al libro ogni motetto et canzone, per rasone di canto
   figurato; ne li discorsi del suo parlare è unica, et tanto
   accomodatamente si porta che non c'è homo nè donna in questa terra
   che la paregi, anchora che la Ill.ma S.ra Marchesa di Pescara sia
   ecc.ma, la quale è qui, come sa V. Ecc. Mostra costei sapere de
   ogni cosa, et parla pur sieco di che materia te aggrada. Sempre ha
   piena la casa di virtuosi et sempre si puol visitarla, et è riccha
   de denari, zoie, colanne, anella et altre cose notabile, et in
   fine è ben accomodata in ogni cosa . . . . . (_Un'avventura di
   Tullia d'Aragona_, nella _Rivista storica mantovana_, vol. I,
   fasc. 1-2, 1885)

[35] Anno Domini M.D.XLIII indictione secunda die vero martis VIII
   mensis Ianuarii Silvester olim . . . . . de Guicciardis
   ferrariensis contraxit matrimonium cum D. Tullia Palmeria de
   Aragonia per verba de presenti et anuli dationem et receptionem
   respective in forma iuris et sacrorum canonum et omni meliori
   modo, etc. Rogantes, etc. Actum Senis.--Ego Sigismundus Mannius
   Ugolinius notarius rogatus. (_R. Archivio di Stato in Siena,
   Scritture concistoriali_, ad annum).

[36] 1544 Die dicto (5 februarii) de sero.

       Hieronymus de Ballatis _Prior_
       D. Achilles Orlandinus
       Conterius de Sansedoniis
       Franciscus Arengherius

   . . . . . et deliberaverunt declarare et declaraverunt D. Tulliam
   de Aragona Sen. habitantem, non esse comprehensam in statuto
   meretricium, dantes licentiam omnibus et quibuscumque personis
   locandi domos dicte domine Tullie, et absque aliqua pena, et
   mandaverunt fieri decretum dicte declarationis et licentie in
   forma. Et fuit factum infrascripti tenoris:

   Spectatissimi Domini Executores Generalis Gabelle Magnifici
   Comunis Sen., convocati et congregati solemniter, etc., audito
   pluries Domino Aurelio Manno Ugolino procuratore et eo nomine
   Nobilis domine Tullie filie quondam Constantii de Palmeriis de
   Aragona et uxoris domini Silvestri de Guicciardis ferrariensis,
   producente eius mandatum manu Ser Sigismundi Manni notarii, etc.,
   exponente qualiter praefata Domina Tullia ob novam compilationem
   Statutorum Reipublicae Sen., a nonnullis videlicet indebite et
   iniuste reputatur et diffamatur, eidem non licuisse nec licere
   deferre nec portare vestes et alia ornamenta muliebra que licite
   sunt et conveniunt personis honestis et nobilibus, et commorari et
   habitare in locis civitatis in quibus licitum est habitare omnibus
   personis honestis et nobilibus; et quia rei veritas est, quod
   praefata D. Tullia ducet vitam honestissimam et propterea ea que
   supradicta sunt sibi non debent quoque modo esse prohibita,
   producente ad iustificationem predictum processum in Curia Domini
   Capitanei Iustitie Civitatis Sen., manu ser Lactantii Lucarini
   notarii publici Sen., nec non decretum magnificorum D. Secretorum
   Officialium Balie manu Ser Alexandri Boninsegni Notarii publici
   Sen., et petente in, de ut super predictis de opportuno iuris
   remedio providero et pro iustitia consulente indemnitati prefate
   Domine Tullie, servatis servandis, omni meliori modo;

   Habita plena notitia et clara informatione de omnibus supra
   narratis de vita, moribus et honestate et qualitate dicte Domine
   Tullie, visu processu predicto et summa inde lata, testibus in eo
   examinatis decreto predicto, et omnibus denique visis, auditis et
   consideratis que videnda et consideranda erant, vigore
   auctoritatis eisdem concesse a Statutis Reipublicae Sen., servatis
   servandis et omni meliori modo, etc., Solemniter deliberaverunt
   prefatam D. Tulliam minime comprehendi in Statuto de meretricibus
   et questus sui corporis facentibus desponente, sibique licuisse et
   licere commorare et habitare in quibuscumque locis civitatis ad
   suum libitum, et vestes ac habitum deferre prout et sicut et in
   omnibus et per omnia licuit et licet personis et mulieribus
   honestis et nobilibus, et ita sibi licentiam et facultatem
   concesserunt, mandantes de predictis sibi publicum fieri decretum,
   et illud inviolabiliter osservari a quibuscumque personis tam
   publicis quam privatis sub pena comminationis arbitri quibuscumque
   in contrarium non obstantibus, et omni meliori modo, rebus tamen
   stantibus pro ut stant et non aliter nec alio modo. (_Archivio di
   Stato in Siena, Buste degli esecutori di Gabella, 1544 gennaio I,
   1545 giugno 30, c. 12-13_).

[37] Die 23 augusti (1544).

    Operta la cassa fu retrovata una politia et acusa del tenore
    susseguente, cioè:

    _La Signora Tullia de Aragona per la pascha di Spirito Santo
    portò la sbernia contro li Statuti.

    Ottaviano Tondi, Horatio Pecci, Il Signor Gaspare servitore del
    Signor D. Giovanni._

    Vide in filo processum agitatum super vita causa ex quo apparet
    de sententia per quam fuit declaratum sibi licere portare
    sberniam istantibus omnibus, etc., (_R. Archivio di Stato in
    Siena, Decreti, polizze, ecc. del Capitano di Giustizia del 1544,
    luglio-dicembre, c. 53_).

   I documenti da noi riportati a pag. XXXI-XXXVI furono rinvenuti
   nell'Archivio di Stato di Siena dal compianto Luciano Banchi.

[38] =Pecci G. A.= _Continuazione delle memorie storico-critiche della
   città di Siena fino all'anno M.D.LII._Siena, Bindi, 1758, vol.
   III, pag. 143.

[39] Sonetto XXXVI.

[40] =Biagi G.= op. cit.--=Bongi S.= _Il velo giallo di Tullia
   d'Aragona_. Estratto dalla _Rivista critica della letteratura
   italiana_, anno III, n. 3, marzo 1886.

[41] "Le meretrici non possino portare vesti di drappo e seta d'alcuna
   ragione, ma sibbene quante gioie e quanto oro e argento esse
   vorranno, et sia tenuta portare un velo, o vero sciugatoio o
   fazzoletto o altra peza in capo che habbi una lista larga un dito
   d'oro o di seta o d'altra materia gialla e in luogo che ella possa
   essere veduta da ciascuno; et tal segno debbia portare a fine che
   elle sien conosciute dalle donne da bene e di honesta vita, sotto
   pena se la ne mancheranno di scudi dieci in oro di oro di sole per
   ciascheduna volta che le trasgrediranno e sian sottoposte al
   Magistrato delli spettabili Otto di Balìa, alli spettabili
   Conservatori di Legge, et alli Offitiali dell'Honestà intra li
   quali magistrati habbi luogo la preventione da distribuirsi come
   l'altre pene che di sotto si dichiareranno. (=Contini=.
   _Legislazione toscana_, vol. I, pag. 332).

[42] Edita dal =Bongi=, op. cit., ed ancora dal =Biagi=.

[43] Archivio di Stato in Firenze. Luogotenenti e Consiglieri di S. E.
   il Duca di Firenze. Deliberazioni, _ad annum_.

[44] "La S.ra Tulja d'Araona a fronte alle dette dee dar per sua tassa
   imposta come di sopra S. 40--4". Archivio di Stato in Roma,
   _Fabbriche camerali_.

[45] Il testamento fu rinvenuto nell'Archivio di Stato di Roma
   dall'archivista Cav. Costantino Corvisieri.--"Del 1556 a dì 2 de
   marzo. Al nome di Dio, &. Io Tullia de aragona sana per gratia di
   Dio de mente et intelletto benchè inferma del corpo volendo
   disporre dei miei beni acciò che doppo morte mia non ne nasca ad
   alcuno lite o scandalo, ordino et faccio il mio ultimo testamento
   et mia ultima volontà in questo modo che seguita, cioè: In prima
   racomando l'anima mia all'altissimo Dio et alla sua gloriosa Madre
   Vergine Maria et a tutta la corte del cielo. Lasso alla Lucretia
   mia creata moglie di Matteo hoste questo fornimento di camera cioè
   queste spalliere verde et questo letto ove io ora giaccio con suoi
   matarazzi, lenzuoli para uno et una coperta, fuorchè lo sparviere,
   et più una vesta di rascia negra usata aperta denanzi;

   Item un roverso rosso nuovo, cioè una sottana de roverso, una saia
   biancha listata de pagonazo et una lionata, una montatura a la
   romana, cioè panno listato et lenzolo, dieci scudi d'oro et sia
   pagata del vino che io ho havuto da lei;

   Item lasso alla putta Christofora mia serva sia vestita di panno
   ordinario negro et datole dieci scudi d'oro; item lasso alle
   povere orfanelle cinque scudi d'oro; item lasso alle monache
   convertite quella parte chelli viene in rigore della bolla; item
   lasso alla compagnia del crocifisso un paramento di taffetà negro
   leggiero semplice.

   Item lasso a Santo Agostino un mezo scudo di cera ogni anno per
   ardere il dì de' morti a la mia sepoltura la quale se non serrà
   arsa alla mia sepoltura da i frati non sia obligato l'herede a
   darla più. Item lasso che ogni anno si dia mezo scudo per far dir
   la messa di San Gregorio per l'anima mia. Item lasso a mastro
   Panuntio medico una veste di rascia negra da medico che gli sia
   fatta nuova.

   Item in tutti gli altri miei beni et in tutte le mie ragioni et
   attioni tanto presenti come d'avenire dovunque siano o saranno io
   instituisco e faccio e con la mia propria bocca nomino Celio che è
   in protettione de Messer Pietro Cioccha scalco del cardinale
   Cornaro, istituisco dicio et faccio detto Celio herede universale
   al quale lascio tutti i miei beni ragioni et attioni per ragione
   et causa de universale institutione con patto et conditione che
   detti miei beni siano venduti et fattone dinari siano posti in
   luogo chelli fructino nè possi disporre Celio nè altri della
   principal somma di detti dinari sinchè detto herede non sia
   all'età di anni venticinque, ma dell'entrata senne nutrisca et
   serva per impa[ra] re littere et altre virtù. Et se detto herede
   (che Dio non voglia) mancasse inanzi all'età di venticinque lascio
   et substituisco herede in vita sua Messer Pietro Chiocca suo
   protettore con condittione che ogni anno dia dieci scudi a una
   povera orfana da maritarsi, il restante senne serva messer Pietro
   per i suoi alimenti et dopo la morte di messer Pietro Chiocca si
   stribuisca ogni cosa ad opere pie et queste debbiano essere le mie
   ultime volontà, et mio ultimo testamento li quali voglio che
   vaglino in virtù et forza di testamento et ultime volontà et se in
   tal modo per alcun rispetto non potesse valere, voglio che vaglia
   in virtù et forza di codicillo et di donatione infra vivi o per
   causa di morte et in quel meglior modo che di ragione può e potrà
   valere e sostenersi. Et per essere io impedita ho fatto scrivere
   questo da persona a me fedele et io l'ho sottoscritto di mia
   propria mano in fede della verità questo dì 2° di marzo 1556.

   Item lasso di essere sepelita in Santo Agostino e nella sepoltura
   di mia madre et mia et alle mie esequie non voglio altro che i
   frati di Santo Agostino et la compagnia del Crocifisso della quale
   io sonno, et sia sepulta a ventiquattro hore senza cerimonie,
   semplicemente.

   Et lasso et instituisco con ogni miglior modo et forma che fare et
   instituire se puote esecutori di questo mio testamento il
   Reverendo vescovo di Tolone e Messer Mario Fregapane, i quali
   supplico per l'amor de Dio et per la fede che ho in loro signorie
   che vogliano doppo la mia morte fare eseguire a puntino queste mie
   ultime volontà per magior dechiaratione della quale io come di
   sopra ho detto mi sottoscrivo di mia propia mano.

   Io Tullia Aragona affermo quanto sopra et instituisco herede
   universale Celio come di sopra ho detto. _A tergo autem_, ecc
   L'entroacluso è il testamento di me Tullia Aragona il quale ho
   sottoscritto de mia propria mano et ligatolo con el filo et
   sigillatolo sopra esso filo il quale consegno a M. Virgilio
   Grandinelli notario pubblico presenti li testimonii sottoscritti
   da me rogati et non voglio sia aperto se non doppo la morte mia,
   et in fede di ciò mi sottoscrivo di mia propria mano. Io Tullia
   Aragona manu propria. _Quorum testium etc. (Archivio di Stato in
   Roma, Not. A. C. vol. 6298, num. 69)_.


[46] Il malevolo Giraldi scriveva di lei che aveva il viso non bello
   nè piacevole "il quale oltre la bocca larga et le labbra sottili
   era disordinato da un naso lungo, gibbuto et nella estrema parte
   grosso et atto a porre sommo difetto in ogni bella faccia s'egli
   tra le guancie vi fosse posto. (_Ecatommiti_, loc. cit.)

[47] In una lettera datata di Venezia li 6 giugno 1537 e scritta allo
   Speroni esaltandogli il suo _Dialogo_egli diceva: La Tullia ha
   guadagnato un tesoro che per sempre spenderlo mai non iscemerà, e
   l'impudicitia sua per sì fatto onore può meritamente essere
   invidiata dalle più pudiche e dalle più fortunate.

[48] Nella commedia del Razzi intitolata la _Balia_(Firenze 1560) in
   fine della scena VII dell'atto III leggesi:

    LIVIO (_padrone_). Io non conobbi mai giovane di più alto animo
    di lei e di più elevato spirito

    BROZZI (_famiglio_). O degli uomini inferma e instabil mente! Pur
    ora la chiamaste puttana e femmina di mondo, ed ora per contrario
    dite tanto ben di lei?

    LIVIO. Sarebbe forse la prima nobile e d'animo grande che è stata
    puttana? Che è stata la Tullia d'Aragona, Isabella di Luna e
    altre?

   Anche il Lasca che pure si atteggia, benchè un po' tardi, ad
   amante della Tullia, nel XXII madrigale lagnandosi che la sua
   donna, anch'essa cortigiana

       lodata ancor non sia
       con dolce stile e soave armonia,

   dice che

       celebrar si sente ognora
       con gloria alta e divina
       e Tullia e Totta e Fioretta e Nannina
       che, bench'elle sieno oggi al mondo rare,
       non si ponno agguagliare
       alla Cecca gentil che m'innamora.

[49] Noli discedere a muliere sensata et bona, quam sortitus es in
   timore Domini: gratia enim verecundiae illius super aurum.
   (_Eccl_. VII, 21).

[50] =Cereseto G. B.= _Storia della poesia in Italia_. Milano,
   Silvestri, 1857, vol. I.

[51] =Aretino P.= _Ragionamenti_. Cosmopoli, 1660, parte I, giornata
   III.--=Graf A.= op. cit. pag 19 e seg.

[52] Il Domenichini nelle sue _Facetie, etc._pag. 32, ricorda una
   disputa che alcuni cortigiani ebbero in casa dell'Aragona sui
   pregi del Petrarca.

[53] Vedi nota a pag. 29.

[54] Per i riscontri usiamo delle _Rime di _=F. Petrarca=_con
   l'interpretazione di _=G. Leopardi =_e con note inedite di _=F.
   Ambrosoli=. Firenze, Barbèra, 1879.

[55] Questo dialogo fu edito in Venezia dal Giolito nel 1547 in-8 e
   ristampato a Milano nel 1864 dal Daelli nella sua _Biblioteca
   rara_con prefazione di Eugenio Camerini (Carlo Téoli).

[56] _Il Meschino e il Guerino_. Poema. In Venezia, per Gio. Battista
   Melchior Sessa, 1560, in-4.

[57] =Crescimbeni=, op. cit., vol. I, c. 341.

[58] =Gordon di Percel.= _Biblioth. des Romans_, tom. II, pag.
   193.--=Crescimbeni=, op. cit., vol. I, carte 331.--=Fontanini G.=
   _Dell'eloquenza italiana_, lib. I, cap. XXVI.--=Zambrini F.= _Le
   opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV ecc._Bologna,
   Zanichelli, 1878.--=Melzi=. _Bibliografia dei romanzi di
   cavalleria in versi e in prosa italiani_.__Milano, Daelli, 1865.

[59] Produciamo a saggio del nostro asserto due sole ottave:

     Ma de l'ostier l'innamorata figlia
     non potendo frenar l'accesa voglia,
     ch'ognun dorma per casa il tempo piglia
     e poi d'ogni timor lieta si spoglia:
     disiando il camin di molte miglia,
     non pensa che 'l Meschin se ne distoglia:
     ponglisi a canto ignuda, e gli si accosta
     nè fu pari a la voglia la risposta.

     Sveglia messer Brandisio, e fagli offerta
     de la da lui già ricusata preda,
     de la qual poi che 'l francioso s'accerta
     non sa s'ancor ben chiaramente creda
     s'ei non esce a battaglia più aperta
     dicendo: E basta che mi si conceda,
     ridendo seco, e franco s'appresenta
     di sorta tal che la mandò contenta.

[60] Mentre il Meschino è condotto alla corte di Pacifero le guide
   ammirandone il femmineo volto gli chieggono se egli sia uomo o
   donna: inteso essere uomo gli manifestano l'uso del paese, che
   ricordava quello di Sodoma. Il Meschino si sdegna, e vorrebbe non
   entrare in tal corte, ma il re gli fa promettere che sarebbe
   rispettato, e l'accolse benignamente con ogni onore.

     E poi la sera volse ch'egli andasse
     a cena seco e fu sopra un tappeto
     disteso in terra, e tal fu la sua asse;
     ma quel lussurioso ed indiscreto
     senza aspettar che più 'l Meschin cenasse,
     per mano il piglia e con atto inquieto
     lo sfrenato desir gli fa palese
     onde 'l Meschin di collera s'accese.

   Rinchiuso in prigione per non aver voluto soddisfare Pacifero,
   vien salvato dalla figliuola del re, che innamoratasi di lui va
   continuamente a trovarlo ove spesso

     . . . . . abbraccia al Meschin suo la gola
     ma ben che freddamente fosse centa
     da lui nel mezzo con le braccia, fece
     quel che stimar si può, ma dir non lece.

   E dopo due sole altre ottave l'innamorata donzella apparisce
   gravida.

[61] Cf. =Rajna P=. _Ricerche intorno ai Reali di Francia_. Bologna,
   Romagnoli, 1872.--Il Zambrini e il Melzi citano le edizioni del
   _Guerino_ nell'ordine seguente: Venezia 1473, Bologna 1475, Venezia
   1477, ivi 1480, Milano 1480, ivi 1482. L'Aragona ignorava forse
   l'autore di esso che il Rajna afferma essere Maestro Andrea de'
   Magnabotti da Barberino di Valdelsa maestro di canto.





RIME DI TULLIA D'ARAGONA


A DONNA ELEONORA DI TOLEDO
DUCHESSA DI FIRENZE

***


TULLIA D'ARAGONA


Io so bene nobilissima e virtuosissima Signora Duchessa, che quanto la
bassezza della condizion mia è men degna della altezza di quella di
V. Eccell. tanto la rozzezza de' componimenti miei è minore dello
ingegno e giudicio suo; e per questa cagione, sono stata in dubbio
gran tempo se io dovessi indirizzare a così grande e così onorato nome
quanto è quello di V. Eccell., così picciola e così ignobile fatica,
come è quella de' sonetti composti da me più tosto per fuggir l'ozio
molte volte, o per non parer scortese a quelli che i loro mi aveano
indirizzati, che per credenza di doverne acquistar fama o pregio
alcuno appresso le genti. Ma desiderando io di mostrare in qualche
modo qualche parte della devotissima servitù mia verso V. Eccell. per
gli obblighi che le ho molti e grandissimi sì a lei, e sì a quella
dello invitto e gloriosissimo consorte suo, presi ardimento, e mi
risolsi finalmente di non mancare a me medesima, ricordandomi che i
componimenti di tutti gli scrittori hanno in tutte le lingue, e
massimamente quegli de' poeti, avuto sempre cotal grazia e preminenza,
che niuno quantunque grande, non solo non gli ha rifiutati mai, ma
sempre tenuti carissimi. Perchè io ancorchè, come ho detto, conosca
benissimo così l'altezza dello stato suo, come la bassezza della
condizione mia, presento umilmente con devotissimo cuore queste mie
poche, basse e picciole fatiche, alle moltissime, grandissime e
altissime virtù di lei, pregandola con tutto l'animo non al dono
voglia nè a chi dona, ma a sè medesima riguardare.




 I. -- Al Duca di Firenze

 Se gli antichi pastor di rose e fiori
 sparsero i tempii, e vaporar gli altari
 d'incenso a Pan, sol perchè dolci e cari
 avea fatto a le Ninfe i loro amori:

 quai fior degg'io Signor, quai deggio odori,
 sparger al nome vostro, che sian pari
 a i merti vostri, e tante, e così rari,
 ch'ognor spargete in me grazie e favori?

 Nessun per certo tempio, altare, o dono
 trovar si può di così gran valore,
 ch'a vostra alta bontà sia pregio eguale.

 Sia dunque il petto vostro, u' tutte sono
 le virtù, tempio; altare, il saggio core;
 Vittima, l'alma mia, se tanto vale.

 [V. 7 B. pari.; D. cari.]



 II. -- Allo stesso
 _(Cod. Magliabecchiano, II, I, IV)._

 Se gli antichi pastor di rose e fiori
 sparsero i tempii, e vaporar gl'altari
 di maschi incensi a Vener, poichè cari
 fece e dolci alle Ninfe i loro amori:

 a voi, che sceso dai più nobil cori
 degl'angiol sete, e ch'ai desiri miei cari
 rendete i favor, quai più rari
 fiori offrirò io? quai grati odori?

 Veramente non tempio, altare, o dono
 trovar si può di tal pregio e valore,
 ch'a vostra cortesia sia merto uguale;

 fuor che fia 'l petto vostro il tempio, u' sono
 alti pensieri; e 'l saggio vostro core
 fia altar; vittima, l'alma mia immortale,

 [V. 6. Nel mss. leggesi: _miei o cari_.]


 III. -- Allo stesso

 Signor, pregio e onor di questa etade,
 cui tutte le virtù compagne fersi,
 che con tante bell'opre e sì diversi
 effetti gite al ciel per mille strade:

 quai fien, che possan mai tante, e si rade
 doti vostre cantar prose, nè versi?
 In voi solo (e son parca) può vedersi
 giunta a sommo valor, somma bontade.

 Voi saggio, voi clemente, voi cortese;
 onde nel primo fior de' più verd'anni
 vi fu dato da Dio sì grande impero,

 per ristorar tutti gli andati danni:
 e, con potere eguale al bel pensero,
 por sempiterno fine a tante offese.

 [V. 7 B. sol, - 13 pensiero.]



 IV. -- Allo stesso

 Signor d'ogni valor più d'altro adorno:
 Duce fra tutti i Duci altero e solo:
 Cosmo, di cui dall'uno all'altro polo,
 e donde parte, e donde torna il giorno,

 non vede pari il sol girando intorno:
 me, che quanto più so v'onoro, e colo,
 prendete in grado, e scemate il gran duolo
 de l'altrui ingiusto oltraggio, e indegno scorno.

 Nè vi dispiaccia, ch'el mio oscuro e vile
 cantar, cerchi talor d'acquistar fama
 a voi più ch'altro chiaro, e più gentile;

 non guardate Signor, quanto lo stile
 vi toglie (ohimè) ma quel che darvi brama
 il cor, ch'a vostra altezza inchina umile.

 [V. 9 D. scuro.]


 V. -- Allo stesso

 Nuovo Numa Toscan, che le chiar'onde
 del tuo bel fiume inalzi a quegli onori
 ch'ebbe già il Tebro; e le stelle migliori
 girano tutte al gran valor seconde;

 le tue virtuti a null'altre seconde,
 alto suggetto a i più famosi cori,
 da l'Arbia, ond'oggi ogni bell'alma è fuori,
 mi trasser d'Arno a le felici sponde.

 E al primo disio, nuovo disire,
 m'accende ognor la tua bontà natìa:
 tal che miglior non spero, o bramo albergo.

 Così potessi un dì farmi sentire
 cortese no, ma grata con la mia
 zampogna, ch'a te sol, bench'indegna, ergo.

 [V. 1 E. Novo; chiare.]
 [2 innalzi a quegl'onori.]
 [6 ai.]
 [7 Dall'; infiori.]
 [9 novo.]
 [11 talchè.]
 [12 potess'io.]
 [14 che a te.]
 [È inserito anche nei _Componimenti poetici delle più illustri
 rimatrici_ raccolti da LUISA BERGALLI. Parte prima, che contiene le
 rimatrici antiche fino all'anno 1573. In Venezia 1726, appresso
 Antonio Mora, _con licenza de' superiori e privilegio_, pag. 110.]



 VI. -- Allo stesso
 _(Cod. Magliabecchiano II, I, IV)._

 Almo Pastor, che godi alle chiar'onde
 del più bel fiume che Toscana onori,
 cui s'aggiran le grazie e i santi amori,
 lieti spargendo intorno fiori e fronde:

 le tue virtuti a null'altro seconde,
 alto soggetto a più gentil pastore,
 da i colli ornati già di mille allori,
 mi volser con mie gregge a le tue sponde.

 E al primo mio disir, nuovo disire,
 aggiunto ha dentr'al cor tua cortesia,
 che in le tue piagge eterno sia 'l mio albergo;

 e vorrei bel almen farmi sentire
 grata al tener della zampogna mia,
 ma a dir el ver tant'alto el suon non ergo.


 VII. -- Allo stesso

 Signor, che con pietate alta e consiglio,
 (onde tanto più ch'altro al mondo vali)
 venisti a medicar gli antichi mali,
 del fiorito per te purpureo giglio;

 io che scampata da crudele artiglio,
 provo gli acerbi e ingiuriosi strali
 quanto sian di fortuna aspri e mortali,
 a te rifuggo in sì grave periglio;

 e solo chieggo umil, che come l'alma
 secura vive omai ne la tua corte,
 da la vicina e minacciata morte,

 così la tua mercè di ben n'apporte
 tanto, che l'altra mia povera salma
 libera venga per le ricche porte.

 [V. 12 B. m'apporte.]
 [Questo sonetto leggesi anche nel_: Libro primo delle rime spirituali,
 parte nuovamente raccolte da più autori, parte non più date in
 luce_. In Venetia, al segno della Speranza, M.D.L. in-12, a carte 40.]



 VIII. -- Allo stesso

 Dive che dal bel monte d'Elicona
 discendete sovente a far soggiorno
 fra queste rive, ond'è che d'ogn'intorno
 il gran nome Toscan più altero sona:

 d'eterni fior tessete una corona
 a lui, che di virtù fa 'l mondo adorno,
 sceso col fortunato Capricorno,
 per cui l'antico vizio n'abbandona.

 E per me lodi, e per me grazia a lui
 rendete, o Dive, che lingua mortale,
 verso immortal virtù s'affanna indarno.

 Quest'è valor, quest'è suggetto tale,
 che solo è da voi sole, e non d'altrui:
 così dicea la Tullia in riva d'Arno.

 [V. 4 B. suona.]


 IX. -- Allo stesso

 Nè vostro impero ancor che bello e raro,
 nè d'argento e di gemme ampia ricchezza,
 che men da chi più sa si brama e prezza,
 vi fanno al mondo sì famoso e chiaro:

 quanto l'aver, Signor pregiato e caro,
 la ben nata e gentil anima avvezza,
 con severa pietate e dolce asprezza
 perdonar, e punir, ch'oggi è sì raro.

 Queste vi fanno tal, lunge e dappresso,
 ch'al grido sol del vostro nome altero
 l'alma s'inchina, e come può vi onora.

 E se al caldo disìo fia mai concesso
 stile al suggetto ugual, ritrarne spero
 fama immortal, dopo la morte ancora.

 [V. 1 E. degno e raro.]
 [10 Che al.]
 [11 v'onora.]
 [12 desio.]
 [13 soggetto.]
 [B. egual.]
 [_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit., pag. 110.]



 X. -- Alla Duchessa di Toscana

 Non così d'acqua colmo in mar discende,
 nè di tante dorate arene vago
 si mostra al suo paese il ricco Tago,
 d'onde 'l nome real di voi si prende,

 come del valor vostro a noi si stende
 di mille opre divine alto ampio lago:
 e quante (benchè in dir nulla m'appago)
 bellezze scorge in voi chi dritto intende.

 Quest'è l'arena d'oro, e queste l'onde
 di beltate e virtù, che 'l bello e santo
 animo e volto vostro, a l'Arno infonde.

 Non più la Spagna omai gioisca tanto,
 che s'ella ha 'l Tago con l'aurate sponde,
 Leonora avrem noi con maggior vanto.

 [V. 14 B. avremo.]


 XI. -- Alla stessa

 O qual vi debb'io dire o Donna o Diva,
 poi che tanta beltà, tanto valore
 riluce in voi, che 'l vostro almo splendore
 abbaglia qual fu mai fiamma più viva?

 Mi dice un bel pensier che di voi scriva,
 e renda grazie, e qual si deve onore;
 ma dove s'erge l'animoso core,
 non giunge penna, o voce umana arriva.

 So ch'ogni alto favor da voi mi viene,
 come la luce al dì da quella stella,
 che surge in oriente innanzi al Sole.

 Ma poi che pur al fin mal si conviene
 a tanta altezza l'umil mia favella,
 v'appaghi il core in vece di parole.



 XII. -- Alla stessa

 Donna reale, a i cui santi disiri
 grazia già fece la bontà superna
 di me, ch'or fatto son chiara lucerna
 sopra i celesti, ardenti, alti zafiri;

 poi che fuor di sospetto e di martiri,
 godo del ben che ne l'alme s'interna,
 deh! non turbate la mia pace eterna
 col pianto vostro, e co' i vostri sospiri.

 Qui mi viv'io, dove 'l pensier non erra;
 dove luogo non ha terreno affetto;
 e co' i piè calco gli stellanti chiostri.

 E se quassù giungesser gli occhi vostri,
 vedendo fatto me novo angeletto,
 qui bramareste, e non vedermi in terra.

 [V. 1 B. a cui i.]


 XIII. -- Alla stessa

 S'a l'alto Creator de gli elementi
 sete, Donna Real, cotanto cara,
 che de la stirpe vostra altera e rara,
 volle ornare i suoi chiostri eterno ardenti;

 e s'or, per acquetar vostri lamenti,
 vi rende il cambio di quell'alma chiara,
 che di voi nata, tutto 'l ciel rischiara,
 a Dio lode cantando in dolci accenti;

 ragion è ben, che con eterni onori
 vi cantin tutti gli spirti più rari,
 com'onorata in terra e in ciel gradita.

 Arno alzi l'acque al ciel, le rive infiori,
 suonino i tempii, e fumino gli altari,
 che 'l nuovo parto a festeggiar n'invita.

 [V. 3 B. De la stirpe vostra.]
 [6 Il principino D. Pietro morì il 10 giugno 1 47, e D. Garzia nacque
 il 5 luglio dello stesso anno.]



 XIV. -- A Maria Salviati de' Medici

 Anima bella che dal padre eterno
 creata prima in ciel nuda e immortale,
 or vestita di vel caduco e frale,
 mostri qua giuso il gran valore interno:

 da gli alti chiostri in questo basso inferno
 u' si n'aggrava il rio peso mortale,
 scendesti a torne noia e a darne l'ale
 al sommo bello, al sommo ben superno;

 chiunque te pur una volta mira,
 sente sgombrar da l'alma ogni vil voglia,
 e arder tutta di celeste amore.

 Dunque ver me col divin raggio spira
 del disiato tuo santo favore,
 ch'io voli al Ciel con la terrena spoglia.

 [V. 7 E. ne.]
 [9 B. sol.]
 [11 Ed; tutto. - _Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit., pag. 111.]


 XV. -- Alla stessa
 _(Cod. Magliabecchiano II, I, IV)._

 Anima bella, che dal Padre eterno
 pura fosti creata e immortale,
 e ingombra di velo oscuro e frale,
 pur di fuor mostri il tuo valor interno:

 dal ciel scendesti in questo vivo inferno,
 u' n'aggrava il terren peso mortale,
 per innalzarne dibattendo l'ale
 al sommo bello, e sommo ben superno.

 Tu di casti pensier, d'onesta voglia
 ingombri l'alma a chi tuo esempio mira,
 e le fai vaghe del verace amore.

 Dunque ver me col vivo raggio spira
 del desiato tuo almo favore,
 ch'io m'erga, e inalzi al ciel da questa spoglia.



 XVI. -- A. D. Luigi di Toledo

 Spirto gentil, che dal natìo terreno
 la chiarezza del sangue, e dal ciel chiara
 anima avesti, e a cui d'ogni più rara
 virtù colmar le sante Muse il seno;

 poi che 'l cor vostro è d'alto valor pieno,
 e real cortesia da voi s'impara,
 non mi sia, prego, vostra mente avara
 di ciò, ch'altrui donando, non vien meno.

 Voi sete quel, ch'avete ambe le chiavi
 di quegli eccelsi, e gloriosi cori
 che fan più ch'ancor mai felice l'Arno;

 or volgetele a me così soavi,
 ch'entro raccolta, mai non esca fuori;
 e prego umil non sia 'l mio prego indarno.


 XVII. -- A D. Pedro di Toledo

 Ben si richiede al vostro almo splendore
 del chiaro sangue, e a la virtù eccellente,
 che si canti Signore eternamente
 ne' giochi di Parnaso il vostro onore;

 ond'è ch'a dir di voi, dentr'al mio core
 s'accende ognor un vivo foco ardente;
 ma come a l'alta impresa non si sente
 l'anima ugual, si spenge il novo ardore.

 Non s'assicura nel profondo seno
 di vostre glorie entrar mia navicella
 sotto la scorta del mio cieco ingegno.

 Solchi 'l gran mar di vostre lodi a pieno
 più felice alma, a cui più chiara stella
 porga favore in più securo legno.



 XVIII. -- A Pietro Bembo

 Bembo, io che fino a qui da grave sonno
 oppressa vissi, anzi dormii la vita,
 or da la luce vostra alma infinita,
 o sol d'ogni saper maestro e donno,

 desta apro gli occhi, sì ch'aperti ponno
 scorger la strada di virtù smarrita;
 ond'io lasciato ove 'l pensier m'invita
 de la parte miglior per voi m'indonno:

 e quanto posso il più mi sforzo anch'io,
 scaldarmi al lume di sì chiaro foco,
 per lasciar del mio nome eterno segno.

 E o non pur da voi si prenda a sdegno
 mio folle ardir, che se 'l sapere è poco,
 non è poco, Signor, l'alto disìo.

 [V. 2 B. dormì; - C. D. dormii.]
 [3 E. dalla.]
 [12 Ed oh! - _Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 111.]


 XIX. -- A Ridolfo Baglioni

 Signore in cui valore e cortesia
 giostrano insieme ognor tanto ugualmente,
 che discerner non puote umana mente,
 di qual di lor più la vittoria sia;

 mia fredda Musa a voi già non s'invia
 per celebrar vostra virtute ardente;
 ma perch'in voi nomar conosce e sente,
 sorger nel vostro onor la gloria mia.

 Ben porta nel mio core un caldo affetto
 il vivo lume vostro, ch'è sì chiaro,
 che risplender si vede in ogni parte.

 Ma prenda voi per degno alto suggetto,
 chi al quieto Apollo è tanto caro,
 quanto voi sete al bellicoso Marte.

 [V. 2 B. egualmente;]
 [8 C. scorger.]



 XX. -- A Francesco Crasso

 La nobil valorosa antica gente,
 che di novo i fratelli ancisi vede,
 e in acerbo esilio a pianger riede,
 Signore, a te, s'inchina umilemente.

 E potendo vendetta arditamente
 gridar da' monti, e piaghe, e mille prede,
 mercè sola e pietate a te richiede,
 di comune voler, pietosamente.

 O sanator de le ferite nostre,
 mira la velenosa e cruda rabbia,
 che 'l sangue giusto, ingiustamente sugge.

 Così tosto avverrà, ch'in te si mostre,
 com'a gran torto, tanti danni or abbia
 la gente, cui pietate e doglia strugge.

 [V. 2 B. D. E. nuovo.]
 [6 B. C. D. E. de' morti. _Componimenti poetici_, ecc.,
 ediz. cit. pag. 112.]


 XXI. -- Al Molza

 Poscia (ohimè) che spento ha l'empia morte
 l'alma gentil, ch'in sua più verde etade,
 a gran passi salìa l'erte contrade
 che menan dritto a la superna corte;

 chi fia che leggi così crude e torte,
 spirti amici d'onor e di bontade,
 non pianga meco ognor, ch'a le più rade
 virtù die' sempre il ciel vite più corte?

 Molza ben pianger dei, poi ch'al camino
 ove ti sprona un disusato ardire,
 perduta hai meco la più fida scorta.

 Io per me dopo sì fero destino
 non voglio altro, non deggio che morire
 se morir deve e puote, chi è già morta.

 [V. 1 B. l'avara; C. D. empia.]



 XXII. -- Al Colonnello Luca Antonio

 Poi che rea sorte ingiustamente preme
 voi, ch'alto albergo sete di valore,
 sento, spirto gentil, un tal dolore,
 che con voi l'alma mia ne giace insieme.

 L'anima mia ne giace, e 'l petto geme,
 di non poter mostrar nel riso il core,
 a voi, cui bramo con perpetuo onore,
 piacer servendo, insino a l'ore estreme

 Il disìo d'ora in ora a voi mi porta:
 quindi rispetto onesto mi ritiene:
 e disvoler conviemmi quel ch'io voglio.

 In sì dubbioso stato mi conforta,
 che ben v'è noto quel che si conviene,
 e questo fa minore il mio cordoglio.

 [V. 1 E. Poichè.]
 [2 siete.]
 [8 all'ore. - _Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 112.]


 XXIII. -- Ad Ugolino Martelli

 Mentre ch'al suon de i dotti ornati versi,
 fate d'Arno suonar l'ampie contrade,
 cantando insieme a più ch'ad una etade
 con le virtù, ch'a voi sì amiche fersi,

 a me, caro Martel, sono tanto avversi
 i fati, ch'ogni ben dal cor mi cade;
 e per occulte, solitarie strade,
 vo' lagrimando il dì che gli occhi apersi.

 Tal che del pianto mio, del mio languire,
 languisce e piagne ogni sterpo e ogni sasso,
 e le fiere e gli augelli in ogni parte.

 Voi mentre affligge me l'empio martire,
 deh! consolate lo mio spirto lasso,
 con vostre eterne e onorate carte.



 XXIV. -- Allo stesso

 Più volte, Ugolin mio, mossi il pensiero
 per risonar con la zampogna mia,
 vostra rara virtute e cortesia,
 poggiando al ciel col bel suggetto altero.

 Ma, lassa, invan m'affanno (o destin fero)
 che roco è 'l suono, e la mia sorte ria,
 sì dietro a i miei dolor tutta m'invia,
 che levarmi da terra, unqua non spero.

 Cantino altri di voi tanti pastori,
 che pascon le lor gregge a l'Arno intorno,
 a cui le Muse, a cui fortuna è amica;

 io s'unqua al mio felice stato torno,
 non pur non tacerò miei santi ardori,
 ma voi sarete mia maggior fatica.

 [V. 1 E. movo]
 [10 greggie.]
 [_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 115.]


 XXV. -- Allo stesso
 _(Cod. Vat. Ottob. 1595)._

 Ho più volte, Signor, fatto pensiero
 di risonar con la zampogna mia,
 di te il valor e l'alta cortesia,
 salendo al ciel presso al suggetto altiero.

 Ma, lassa, invan m'affanno, o destin fiero,
 che roco è 'l suono, e mia fortuna rìa,
 sì dietro a miei dolor tutta m'invia,
 che levarmi di terra indarno spero.

 Cantin di te tanti gentil pastori,
 che pascon le lor greggie al Po d'intorno,
 a cui le Muse, a cui fortuna è amica:

 forse il mio Mopso ancor, fatto ritorno,
 farà sentir non pur suoi bassi amori,
 ma tu sarai la sua maggior fatica.

 [Questo sonetto diretto prima al Martelli, appare qui scritto per il
 Muzio come chiaramente rilevasi dal nome di _Mopso_.]



 XXVI. -- Allo stesso

 Ben sono in me d'ogni virtute accese
 le voglie tutte, e gli spirti alto intenti;
 ma 'l poter e l'oprar sì freddi e spenti,
 ch'io mi veggo aver l'ore indarno spese.

 Onde non lodi no, ma gravi offese
 mi son le rime vostre, e però tenti
 vostr'alto stil, fra tante e sì eccellenti,
 mille di lui cantar più degne imprese.

 Ben può celar il ver finta bugia,
 a qualche tempo, o 'n qualche loco, o parte:
 ma non sì ch'ei non vinca, e 'n sella stia,

 dunque per più secura e corta via,
 rivolgete, Ugolin, tanta vostra arte,
 ch'in altrui molto, in me poco sarìa.

 [Risposta al sonetto, del Martelli: _Se lodando di voi quel che palese._]


 XXVII. -- A Benedetto Varchi

 Varchi, da cui giammai non si scompagna
 il coro de le Muse, e ch'a l'affanno
 com'a la gioia, a l'util com'al danno,
 sempre avete virtù fida compagna;

 qual monte, o valle, o riviera, o campagna,
 non sarìa a voi più che dorato scanno:
 se come fumo innanzi a lei sen vanno
 gli umani affetti, ond'altri più si lagna?

 O perchè errar a me così non lice
 con voi pe' i boschi, com'ho 'l core acceso,
 de l'onorate vostre fide scorte?

 Ch'avendo ogni pensiero al cielo inteso,
 vivendo viverei vita felice,
 e morta sperarei vincer la morte.



 XXVIII -- Allo stesso

 Varchi, il cui raro e immortal valore,
 ogni anima gentil subito invoglia,
 deh! perchè non poss'io, com'ho la voglia
 del vostro alto saver colmarmi il core?

 che con tal guida so ch'uscirei fore,
 de la man di fortuna, che mi spoglia
 d'ogni usato conforto: e ogni mia doglia
 cangerei in dolce canto, e 'n miglior ore.

 Ahi! lassa, io veggio ben che la mia sorte
 contrasta a così onesto e bel desire,
 sol perchè manch'io sotto l'aspre some.

 Ma s'i me pur così convien finire,
 la penna vostra almen, levi il mio nome
 fuor degli artigli d'importuna morte.

 [V. 4 E. saper.]
 [5 fuore.]
 [6 Delle.]
 [11 Sol perch'io manchi.]
 [_Componimenti poetici_, ecc. ediz. cit. pag. 113.]


 XXIX. -- Allo stesso

 Quel che 'l mondo d'invidia empie e di duolo,
 quel che sol di virtute è ricco e adorno,
 quel che col suo splendor un lieto giorno
 chiaro ne mostra a l'uno e all'altro polo:

 quel sete Varchi voi, quel voi che solo,
 fate col valor vostro oltraggio e scorno
 a i più lontan, non ch'ai vicin d'intorno;
 ond'io v'ammiro, riverisco e colo.

 E di voi canterei mentre ch'io vivo,
 s'al gran suggetto il mio debile stile,
 giunger potesse di gran spazio almeno.

 O pur non fosse a voi noioso e schivo
 questo mio dire, scemo e troppo umile:
 che per voi renderassi altero e pieno.



 XXX. -- Allo stesso

 Se 'l ciel sempre sereno e verdi i prati,
 sieno al bel gregge tuo, dolce pastore
 vero d'Arcadia e di Toscana onore,
 più chiaro fra i più chiari e più pregiati:

 se tanto in tuo favor girino i fati,
 che mai tor non ti possa il dato core
 Filli, nè tu a lei tuo santo amore,
 onde vi gridi ogni uom saggi e beati:

 dinne, caro Damon, s'alma sì vile
 e sì cruda esser può, ch'essendo amata
 renda invece d'amor tormenti e morte.

 Ch'io temo (lassa) se 'l tuo dotto stile
 non mi leva il dubbiar, d'esser pagata
 di tal mercede, sì dura è mia sorte.

 [V. 7 E. casto.]
 [_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 114.]


 XXXI. -- Allo stesso

 Dopo importuna pioggia
 s'allegrano i pastor, quando 'l sereno
 ciel si discopre lor di stelle pieno;

 e dopo 'l corso de l'instabil luna,
 ne l'apparir del sole,
 gioisce ogni animal che brama il giorno;

 e l'alto Dio lodar ben spesso suole,
 dopo l'aspra fortuna,
 spaventato nocchier al porto intorno;

 e 'l Varchi è al suo ritorno
 seren, sol, porto: e chi ha d'onor disìo,
 si rallegra, gioisce e loda Iddio.

 [V. 10 B. Varchi al; C. D. Varchi è al.]



 XXXII. -- A Girolamo Muzio

 Voi ch'avete fortuna sì nimica,
 com'animo, valor e cortesia,
 qual benigno destino oggi v'invia
 a riveder la vostra fiamma antica?

 Muzio gentile, un'alma così amica
 è soave valore a l'alma mia,
 ben duolmi de la dura e alpestra via
 con tanta non di voi degna fatica.

 Visse gran tempo l'onorato amore
 ch'al Po già per me v'arse. E non cred'io
 che sia sì chiara fiamma in tutto spenta.

 E se nel volto altrui si legge il core,
 spero ch'in riva d'Arno il nome mio
 alto sonar ancor per voi si senta.

 [V. 1 E. nemica.]
 [13 all'Arno.]
 [14 Alto per voi suonare ancor si senta.]
 [_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 113.]


 XXXIII. -- Allo stesso

 Fiamma gentil che da gl'interni lumi
 con dolce folgorar in me discendi,
 mio intenso affetto lietamente prendi,
 com'è usanza a tuoi santi costumi;

 poi che con l'alta tua luce m'allumi
 e sì soavemente il cor m'accendi,
 ch'ardendo lieto vive e lo difendi,
 che forza di vil foco nol consumi.

 E con la lingua fai che 'l rozo ingegno,
 caldo dal caldo tuo, cerchi inalzarsi
 per cantar tue virtuti in mille parti;

 io spero ancor a l'età tarda farsi
 noto che fosti tal, che stil più degno
 uopo era, e che mi fu gloria l'amarti.

 [V. 5 E. coll'alta.]
 [8 foco lo consumi.]
 [14 d'amarti.]
 [_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 114.]



 XXXIV. -- Allo stesso

 Spirto gentil, che vero e raro oggetto
 se' di quel bel, che più l'alma disìa,
 e di cui brama ognor la mente mia
 essere al tuo cantar caro suggetto;

 se di pari n'andasse in me l'effetto
 con le tue lode, onor render potrìa
 mia penna a te; ma poi mia sorte rìa
 m'ha sì bramato onor tutto interdetto.

 Sol dirò, che seguendo la sua stella,
 l'anima tua da te fece partita,
 venendo in me, com'in sua propria cella;

 e la mia, ch'ora è teco insieme unita,
 ten può far chiara fede, come quella,
 che con la tua si mosse a cangiar vita.

 [V. 2 D. Sei; E. desia.]
 [5 si andasse.]
 [_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag, 116. - Risposta al
 sonetto del Muzio: _Donna, il cui grazioso e altero aspetto_.]


 XXXV. -- A Bernardo Ochino

 Bernardo, ben potea bastarvi averne
 co 'l dolce dir, ch'a voi natura infonde,
 qui dove 'l re de fiumi ha più chiare onde,
 acceso i cuori a le sante opre eterne;

 che se pur sono in voi pure l'interne
 voglie, e la vita al vestir corrisponde,
 non uom di frale carne e d'ossa immonde,
 ma sete un voi de le schiere superne.

 Or le finte apparenze, e 'l ballo, e 'l suono,
 chiesti dal tempo e da l'antica usanza,
 a che così da voi vietati sono?

 Non fora santità, fora arroganza
 torre il libero arbitrio, il maggior dono
 che Dio ne diè ne la primiera stanza.



 XXXVI. -- Ad Emilio Tondi

 Siena dolente i suoi migliori invita
 a lagrimar intorno al suo gran Tondi,
 al cui valor ben furo i cieli secondi,
 poscia invidiaro l'onorata vita.

 Marte il pianger di lei col pianto aita,
 morto 'l campion, cui fur gli altri secondi;
 io prego i miei sospir caldi e profondi,
 ch'a sfogar sì gran duol porgano aita.

 So che non pon recar miei tristi accenti,
 a voi, messer Emilio, alcun conforto,
 che fra tanti dolori il primo è 'l vostro.

 Ma 'l duol si tempri; il suo mortale è morto;
 vive 'l suo nome eterno fra le genti:
 l'alma trionfa nel superno chiostro.


 XXXVII. -- A Tiberio Nari

 Se veston sol d'eterna gloria il manto
 quei che l'onor più che la vita amaro,
 perchè volete voi, gentil mio Naro,
 render men bella con acerbo pianto

 quella lode immortale e chiara tanto,
 di cui mai non sarà chi giunga al paro
 del valoroso vostro fratel caro,
 che morendo portò di morte 'l vanto?

 Scacciate 'l duol è rasserenate il volto;
 e le unite da lui nemiche spoglie
 sacrate a lui, che già trionfa in cielo.

 E da questo mortal caduco velo
 più che mai vivo, ormi libero e sciolto,
 par ch'a seguirlo ogni bell'alma invoglie.



 XXXVIII. -- A Piero Manelli

 Poi che mi diè natura a voi simile
 forma e materia, o fosse il gran Fattore,
 non pensate ch'ancor disìo d'onore
 mi desse, e bei pensier, Manel gentile?

 Dunque credete me cotanto vile,
 ch'io non osi mostrar cantando, fore,
 quel che dentro n'ancide altero ardore,
 se bene a voi non ho pari lo stile?

 Non lo crediate, no, Piero, ch'anch'io
 fatico ognor per appressarmi al cielo,
 e lasciar del mio nome in terra fama.

 Non contenda rea sorte il bel desìo,
 che pria che l'alma dal corporeo velo
 si scioglia, sazierò forse mia brama.

 [V. 7 D. m'ancide.]


 XXXIX. -- Allo stesso

 Amore un tempo in così lento foco
 arse mia vita, e sì colmo di doglia
 struggeasi 'l cor, che quale altro si voglia
 martir, fora ver lei dolcezza e gioco.

 Poscia sdegno e pietate a poco a poco
 spenser la fiamma, ond'io più ch'altra soglia
 libera da sì lunga e fera voglia,
 giva lieta cantando in ciascun loco.

 Ma 'l ciel nè sazio ancor (lassa) nè stanco
 de' danni miei, perchè sempre sospiri,
 mi riconduce a la mia antica sorte;

 e con sì acuto spron mi punge il fianco,
 ch'io temo sotto i primi empii martiri
 cader, e per men mal bramar la morte.

 [_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit., pag. 115.]
 [_Parnaso italiano ovvero raccolta di poeti classici italiani_,
 Venezia 1787, presso Antonio Zatta, vol. XXX, pag. 240.]
 [_Scelta di sonetti e canzoni dei più celebri rimatori d'ogni
 secolo_. Quarta edizione con nuova aggiunta. Parte seconda che
 contiene i rimatori dal 1550 sino al 1600 e del 1600. In Venezia,
 presso Lorenzo Baseggio, 1784 in-12, a carte 532.]



 XL. -- Allo stesso

 Qual vaga Filomela, che fuggita
 è da l'odiata gabbia, e in superba
 vista sen va tra gli arboscelli e l'erba,
 tornata in libertate e in lieta vita;

 er'io da gli amorosi lacci uscita,
 schernendo ogni martìre e pena acerba
 de l'incredibil duol, ch'in sè riserba
 qual ha per troppo amar l'alma smarrita.

 Ben avev'io ritolte (ahi stella fera!)
 dal tempio di Ciprigna le mie spoglie,
 e di lor pregio me n'andava altera;

 quand'a me Amor: le tue ritrose voglie,
 muterò, disse; e femmi prigioniera
 di tua virtù, per rinovar mie doglie.


 XLI. -- Allo stesso

 Felice speme, ch'a tant'alta impresa
 ergi la mente mia, che ad or ad ora
 dietro al santo pensier che la innamora,
 sen vola al Ciel per contemplare intesa.

 De bei disir in gentil foco accesa,
 miro ivi lui, ch'ogni bell'alma onora,
 e quel ch'è dentro, e quanto appar di fora,
 versa in me gioia senz'alcuna offesa.

 Dolce, che mi feristi, aurato strale,
 dolce, ch'inacerbir mai non potranno
 quante amarezze dar puote aspra sorte;

 pro mi sia grande ogni più grave danno,
 che del mio ardir per aver merto uguale
 più degno guiderdon non è che morte.


 [CRESCIMBENI: _Istoria della volgar poesia_, Venezia, presso Lorenzo
 Baseggio, 1730, vol. IV, pag. 68.]



 XLII. -- Allo stesso

 S'io 'l feci unqua che mai non giunga a riva
 l'interno duol, che 'l cuor lasso sostiene;
 s'io 'l feci, che perduta ogni mia spene
 in guerra eterna de vostr'occhi viva;

 s'io 'l feci, ch'ogni dì resti più priva
 de la grazia, onde nasce ogni mio bene;
 s'io 'l feci, che di tante e cotai pene,
 non m'apporti alcun mai tranquilla oliva;

 s'io 'l feci, ch'in voi manchi ogni pietade,
 e cresca doglia in me, pianto e martìre
 distruggendomi pur come far soglio;

 ma s'io no 'l feci, il duro vostro orgoglio
 in amor si converta: e lunga etade
 sia dolce il frutto del mio bel disire.


 XLIII. -- Allo stesso

 Se ben pietosa madre unico figlio
 perde talora, e nuovo, alto dolore
 le preme il tristo e suspiroso core,
 spera conforto almen, spera consiglio.

 Se scaltro capitano in gran periglio,
 mostrando alteramente il suo valore,
 resta vinto e prigion, spera uscir fuore
 quando che sia con baldanzoso ciglio.

 S'in tempestoso mar giunto si duole
 spaventato nocchier già presso a morte
 ha speme ancor di rivedersi in porto.

 Ma io, s'avvien che perda il mio bel sole,
 o per mia colpa, o per malvagia sorte,
 non spero aver, nè voglio, alcun conforto.



 XLIV. -- Allo stesso

 Se forse per pietà del mio languire
 al suon del tristo pianto in questo loco
 ten vieni a me, che tutta fiamma e foco
 ardomi, e struggo colma di disire,

 vago augellino, e meco il mio martìre
 ch'in pena volge ogni passato gioco,
 piangi cantando in suon dolente e roco,
 veggendomi del duol quasi perire;

 pregoti per l'ardor che sì m'addoglia,
 ne voli in quella amena e cruda valle
 ov'è chi sol può darmi e morte e vita;

 e cantando gli di' che cangi voglia,
 volgendo a Roma 'l viso, e a lei le spalle,
 se vuol l'alma trovar col corpo unita.


 XLV. -- Allo stesso

 Ov'è (misera me) quell'aureo crine
 di cui fe' rete per pigliarmi Amore
 ov'è (lassa) il bel viso, onde l'ardore
 nasce, che mena la mia vita al fine?

 Ove son quelle luci alte e divine
 in cui dolce si vive e insieme more?
 ov'è la bianca man, che lo mio core
 stringendo punse con acute spine?

 Ove suonan l'angeliche parole,
 ch'in un momento mi dan morte e vita?
 u' i cari sguardi, u' le maniere belle?

 Ove luce ora il vivo almo mio sole,
 con cui dolce destin mi venne in sorte
 quanto mai piovve da benigne stelle?



 XLVI. -- Ad Alessandro Arrighi

 Spirto gentil, s'al giusto voler mio
 non è cortese il cielo e amico tanto,
 ch'io possa con ragion lodarvi quanto
 me fate, e io far voi spero e desio;

 dolgomi del mio fato acerbo e rio,
 che ciò mi niega, rivolgendo in pianto
 il mio già lieto e dilettoso canto,
 per cui fan gli occhi miei si largo riso.

 Ma se fortuna mai si mostra amica
 a le mie voglie, non dubito ancora
 poter cantarvi tal qual mio cor brama,

 e far sentir per questa piaggia aprìca
 quant'è 'l valor, ch'in voi mio core onora,
 piacciavi s'or lo riverisce e ama.

 [Risposta al sonetto dell'ARRIGHI: _S'un medesimo stral duo petti
 aprìo_.]


 XLVII. -- A Lattanzio de' Benucci

 Io ch'a ragion tengo me stessa a vile,
 nè scorgo parte in me che non m'annoi,
 bramando tormi a morte e viver poi
 ne le carte d'un qualche a voi simile,

 cercando vo per questo lieto aprile
 d'ingegni mille, non pur uno o doi
 suggetti degni de i più alti eroi,
 e d'inchiostro al mio tutto dissimile.

 Però dovunque avvien, che mai si nome
 alteramente alcuno, indi m'ingegno
 trar rime, onde s'eterni il nome nostro.

 E spero ancor, se 'l mio cangiar di chiome
 non rende pigro questo ardito ingegno,
 d'Elicona salire al sacro chiostro.

 [Risposta al sonetto del BENUCCI: _Deh, non volgete altrove il dotto stile_.]



 XLVIII. -- Ad Antonio Grazzini _(Lasca)_

 Io che fin qui quasi alga ingrata e vile
 sprezzava in me così l'interna parte,
 come u' di fuor, che tosto invecchia e parte
 da noi ben spesso nel più bello aprile,

 oggi, Lasca gentil, non pur a vile
 non mi tengo (mercè de le tue carte)
 ma movo ancor la penna ad onorarte,
 fatta in tutto a me stessa dissimile.

 E come pianta che suggendo piglia
 novo licor da l'umido terreno
 manda fuor frutti e fior, benchè s'attempi:

 tal'io potrei, sì nuovo mi bisbiglia
 pensier nel cor di non venir mai meno,
 dar forse ancor di me non bassi esempi.

 [V. 3 B. un; C. D. u']
 [Risposta al sonetto del LASCA: _Se 'l vostro alto valor, Donna gentile_.]


 XLIX. -- A Nicolò Martelli

 Ben fu felice vostro alto destino,
 poi che vena vi die' tanto feconda,
 che 'l santo Apollo il vostro dir seconda
 più ch'ei non fece al suo diletto Lino.

 Il coro de le Muse a capo chino
 lieto v'onora, e 'l bel crin vi circonda
 di vaghi fiori e d'odorata fronda:
 perchè ragion è ben s'a voi m'inchino.

 Il cantar vostro l'anime innamora,
 e le fa da se stesse pellegrine,
 che celeste virtù può ciò che vuole.

 E 'n voi mirando grazie sì divine
 chi ha più gentil spirto più v'onora,
 altri d'invidia si lamenta e dole.

 [V. 7 adorata; C. D. odorata.]
 [8 E. Quindi.]
 [11 fa.]
 [14 duole.]
 [_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit., pag. 116. - Risposta al
 sonetto del MARTELLI: _Se 'l mondo diede allor la gloria a Arpino._]



 L. -- A Simone Porzio

 Porzio gentile, a cui l'alma natura
 e i sacri studi han posto dentro 'l core
 virtù, ch'esser vi fa primo cultore
 di lei, cui 'l cieco mondo oggi non cura;

 poi che rendete a feconda coltura
 sue alpestre piaggie, onde d'eterno onore
 semi spargete, e d'immortal valore
 cogliete frutti che 'l tempo non fura;

 piacciavi, prego, che vostra alta mente
 a l'umil pianta mia volga il pensieio,
 s'ella forse non n'è del tutto indegna,

 che di quel che per me poter non spero,
 col favor vostro a la futura gente
 di maraviglia ancor si farà degna.


 LI. -- A Giordano Orsini

 Alma gentil, in cui l'eterna mente,
 per farvi sovra ogni alma, bella e chiara,
 pose ogni studio; onde per voi s'impara
 la via di gir al ciel sicuramente;

 sì come il mondo della più eccellente
 cosa di voi non ha, nè tanto cara;
 e come sola sete e non pur rara
 d'ogni virtute ornata interamente;

 potess'io dirne appien quanto 'l cor brama,
 che d'invidia empirei e di dolore
 ogni spirto più saggio e più gentile,

 benchè vostro valor eterna fama
 per se vi acquisti, caro mio signore,
 quanto 'l sol gira e Battro abbraccia e Tile.



 LII. -- Al Card. di Tournon

 Sacro pastor, che la tua greggia umile,
 di caritade acceso e d'Amor pieno,
 guidi fuor del mortal camin terreno,
 per ricondurla al suo celeste ovile;

 se 'l ben'oprar ti rende a Dio simile,
 or che raggio divin le scalda il seno,
 ricevi o Santo nel tuo pasco ameno
 questa tua pecorella errante e vile;

 sì che possa ridotta in piagge apriche,
 ove nocer non può contraria sorte,
 nè fiere stelle al nostro danno intente;

 poste in oblìo l'acerbe sue fatiche
 fuggir le pompe, e disprezzar la morte,
 tenendo sempre in Dio ferma la mente.

 [Sta nel: _Sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori,
 nuovamente raccolte et mandate in luce con un discorso di GIROLAMO
 RUSCELLI, al molto Reverendo et honoratiss. Monsignor Girolamo
 Artusio. Con gratia et privilegio_. In Vinegia, al _Segno del Pozzo_,
 M.D.LIII, a carte 182.]


 LIII. -- Allo stesso

 Signor nel cui divino alto valore
 tanto si gloria l'una Gallia altera,
 e l'altra tutta mesta e afflitta spera
 por fin a l'aspro suo grave dolore,
 poscia che voi tornando, il suo splendore
 torna e fa bella Roma:
 ecco la sparsa chioma,
 ella v'accoglie lieta, e manda fore,
 voci gioconde a asciuga gli occhi molli,
 e Tornon grida 'l Tebro e i sette colli.

 La pace, la letizia, a la sublime
 schiera de le virtù sacre, ch'a noi
 spariro al partir vostro, ora con voi
 riedono, e fan contesa al tornar prime
 le Muse a celebrarvi in versi e in rime;
 destano i chiari spirti,
 ond'or s'ergano i mirti,
 e i lauri spargon l'onorate cime,
 e prima de l'usato il mondo infiora,
 e l'aria empie d'odor Favonio e Flora.

 Fra tanto almo gioir, fra tanta festa,
 ch'oggi al vostro tornar si mostra e sente,
 anch'io la speme, e la letizia spente
 poter nudrir ne l'alma dubbia e mesta,
 se mirate, Signor, quel che m'infesta
 noioso e aspro duolo
 che voi potete solo
 ridurmi in porto da crudel tempesta,
 e volgendo ver me pietoso il ciglio
 trar mia vita di doglia e di periglio.

 Canzon, se innanzi a lui per grazia arrivi,
 che dee chiuder di Giano il tempio aperto,
 benchè nulla è 'l mio merto,
 pregal, che sola non mi lasci in guerra
 poi che per lui si spera pace in terra.

 [_Sesto libro delle Rime_ raccolte dal RUSCELLI, Venezia 1553, c. 183.]


 LIV.

 Se materna pietate afflige il core
 onde cercando in questa parte e in quella
 il caro figlio tuo, Lilla mia bella,
 piangi, e cresci piangendo il tuo dolore:

 a te, ch'animal se' di ragion fore,
 e non intendi (ohimè) quanto rubella
 sia stata ad ambe noi sorte empia e fella,
 togliendo a te 'l tuo figlio, a me 'l mio amore;

 che far (lassa) degg'io? Qual degno pianto
 verseran gli occhi miei dal cor mai sempre,
 che conosco il tuo male, e 'l mio gran danno?

 Chi potrà di Psichi con alto canto
 cantar l'altere lodi: o con quai tempre
 temprar quel, che mi da sua morte affanno?

 [V. 3 Lilia; C. D. Lilla.]
 [5 C. D. sei.]
 [12 C. D. Chi di Psichi potrà.]



 LV.

 Ben mi credea fuggendo il mio bel sole
 scemar (misera me) l'ardente foco
 con cercar chiari rivi, e starne a l'ombra
 ne i più fronzuti e solitarii boschi;
 ma quanto più lontan luce il suo raggio
 tanto più d'or in or cresce 'l mio vampo.

 Chi crederebbe mai che questo vampo
 crescesse quanto è più lontan dal sole?
 E pur il provo, che quel divin raggio
 quant'è più lunge più raddoppia il foco:
 nè mi giova abitar fontane o boschi,
 ch'al mio mal nulla val, fresco, onda od ombra.

 Ma non cercherò più fresco, onda od ombra,
 che 'l mio così cocente e fero vampo
 non ponno ammorzar punto fonti o boschi;
 ma ben seguirò sempre il mio bel sole,
 poscia che nuova salamandra in foco
 vivo lieta, mercè del divo raggio.

 [V. 10 B. longe; C. D. lunge.]


 [LV.]
 _(Codice Vat. Ottob. 1595, c 118-119)_

 Ben mi credea fuggendo il mio bel sole
 scemar misera a me l'estremo fuoco,
 con cercar chiari rivi e stare all'ombra
 dei verdi faggi ed abitar fra boschi;
 ma quanto più lontano è il suo bel volto
 tanto più d'or in or cresce 'l mio vampo.

 Chi crederebbe mai che questo vampo
 crescesse quanto è più lontan dal sole?
 Io pur il provo, che quel divin volto
 accresce e 'n me raddoppia ognor il fuoco,
 nè mi giova cercar fontane o boschi,
 che questo sol non cuopre e frondi ed ombra.

 Non cercarò vie più posare all'ombra
 per minuire il mio cocente vampo,
 nè, lassa, errando, gir tra folti boschi;
 ma ben seguirò io sempre quel sole
 per cui sì lieta mi nutrico in fuoco,
 che a ciò mi sforza il cielo col suo bel volto.



 Deh! perchè non m'alluma il vivo raggio
 ovunqu' io vado, o per sole o per ombra,
 che lieta soffrirei sì dolce foco,
 e contenta morrei del suo gran vampo?
 Ma non spero giammai, lassa, che 'l sole
 scopra giorno sì chiaro in questi boschi.

 Ond'avrò sempre in odio i monti e i boschi
 che m'ascondon la luce di quel raggio,
 che splende e scalda più de l'altro sole;
 biasmi chi vuole e fugga i raggi a l'ombra,
 ch'io per me cerco sempre e lodo il vampo
 che m'arde e strugge in sì possente foco.

 Quanto dunque mi fora grato il foco,
 ingrati i monti, e le fontane, e i boschi,
 u' non veggo il mio sole e sento il vampo
 s'io potessi appressar l'amato raggio
 e del mio stesso corpo a lui far ombra,
 e quando parte e quando torna il sole.

 Prima sia oscuro il sole e freddo il foco,
 nè faranno ombra in nessun tempo i boschi,
 che del bel raggio in me non arda il vampo.

 [V. 11 B. certo.]


 Deh! perchè non è meco il sacro volto
 dovunque io vadi, o per sole o per ombra,
 ch'avria forse men forza al cuore il fuoco
 e soffrirei più lieta ogni mio vampo;
 ma puote solo un raggio del mio sole
 farmi beata ne gli ombrosi boschi.

 E perciò in odio avrò sempre quei boschi
 che torrammi il veder del sacro volto,
 e i chiari raggi dell'almo mio sole
 che fean sgombrar le nube e fuggir l'ombra,
 e me sola gioir nel chiaro vampo
 qual salamandra nel più ardente fuoco.

 Quanto mi fora dilettoso il fuoco,
 noiosi i fonti e via men grati i boschi,
 men cari i faggi e men noioso il vampo,
 s'unir potessi il mio volto al bel volto
 e col mio stesso corpo al suo far ombre,
 ben d'arder godrei toccando il sole.

 Deh, dicesse il mio sole: anch'io sto in foco
 però non cercar più ombra ne' boschi,
 che vo' che 'l volto mio tempri il tuo vampo.

 [Questo componimento fu probabilmente diretto al MANELLI, quantunque
 il _sacro volto_ lasci credere trattarsi di qualche porporato.]



 LVI.

 Alma del vero bel chiara sembianza,
 a cui non può far schermo nè riparo
 così gentil e cristallina stanza
 che non mostri di fuor l'altero e raro
 splender, che sol ne da ferma speranza
 del ben, ch'unqua non fura il tempo avaro:
 deh! fa, se morta m'hai, ch'in te rinnovi
 acciò di doppia morte il viver pruovi.

 [CRESCIMBENI. _Istoria della volgar poesia_, ecc., ediz. cit., vol. I,
 pag. 36.]


 LVII.
 _(cod. Vat. Ottob. 1595, c. 119)_

 Lieto viss'io sotto un bianco lauro
 e vivrò fin che 'l bianco amor m'infondi
 non per ornar le tempie d'ostro e d'auro
 ma sol delle tue sacre altiere frondi;
 ma poi che più e più volte il sole in Tauro
 tornato fa che i suoi bei crini ascondi
 se s'affredda stagion mutarà il corso,
 i frutti seccarà, le frondi e il dorso.

 [Questa stanza è attribuita all'Aragona e diretta a _Madonna Laura
 Spinelli_, alias _Ninì_. Nell'edizione prima delle _Rime_ posseduta
 dalla Biblioteca Vittorio Emanuele il sonetto n. XXX porta scritto
 sopra a penna: alla _S. Philomena Ninì_.]





 RIME A TULLIA D'ARAGONA


 1. -- Di Girolamo Muzio

 Amor nel cor mi siede e vuoi ch'io dica
 di qual esca racceso a l'alma mia
 sia 'l novo ardor, qual il soggetto sia
 ch'è de l'animo mio dolce fatica.

 Alma gentil d'alti pensieri amica,
 lumi amorosi, angelica armonia,
 fan ch'ogni mio disir lieto s'invia
 per le vestigia de la fiamma antica.

 Colei ch'io canto, nacque in su le sponde
 del chiaro fiume che d'eterni allori
 ben mille volte ornò le verdi chiome;

 visse in tenera etate presso a l'onde
 del più bel fonte che Toscana onori:
 la sua stirpe è Aragon: Tullia il suo nome.


 2. -- Dello stesso

 Donna che sete in terra il primo oggetto
 a l'anime amorose e ai gentil cori,
 e i cui gloriosi e alteri onori
 sono al mio stile altissimo soggetto;

 in voi stessa si volga il chiaro aspetto
 de l'alma vostra, in cui degli alti cori
 risplende il bel, e 'n tutti i vostri ardori
 fiammeggiar si vedrà celeste affetto.

 Vedrete in voi mirando l'alma mia,
 ch'in voi sempre si specchia e si fa bella,
 per infiammarvi in me del vostro lume.

 E 'l farà sì, per quel che mi favella
 nel petto amor, se rio mortal costume
 dietro a bassi pensier non vi disvia.



 3. -- Dello stesso

 Anima bella, che da gli alti chiostri
 fosti mandata in questo cieco inferno
 a consumar nel suggetto ampio e eterno,
 i più famosi e più purgati inchiostri;

 mentre s'affannan gl'intelletti nostri
 a contemplar il tuo valore interno,
 con la voce e con gli occhi al ben superno
 gl'inalzi, e d'ire al ciel la via ne mostri.

 Quinci è che quale ha in terra alma più rara,
 infiammata dal sol, ch'in te riluce,
 più lieta a te rivolge ogni pensero.

 Ed io, poi che tua fiamma in me traluce,
 forse più ch'in altri soave e chiara,
 e porto 'l cor d'eterna gloria altero.


 4. -- Dello stesso

 Quando 'l raggio del bel, ch'in voi risplende,
 per l'orecchie e per gli occhi al mio mortale
 trapassa, o Donna, un chiaro ardor m'assale,
 che d'eterno disio tutto m'incende.

 L'anima allor, che 'l novo affetto intende
 mover d'alta cagione, ogni mortale
 piacer schernendo, e al ciel battendo l'ale,
 verso l'amato lume il camin prende:

 e com'aquila al sol drizzando gli occhi
 al foco vostro s'erge a la salita,
 dove alfin pace le promette amore.

 Deh! siate larga a lei del bel splendore,
 e porgete al suo volo pronta aita,
 acciocchè inferma e cieca non trabocchi.



 5. -- Dello stesso

 Mentre le fiamme più che 'l sol lucenti,
 onde amor m'arde e già gran tempo m'arse,
 vaghi occhi miei non vi si mostran scarse,
 mandate nel mio core i raggi ardenti;

 orecchi miei, mentre bramosi e intenti
 notate 'l suon, che di su in terra apparse,
 e ne van le sue voci all'aura sparse,
 inviate a la mente i sacri accenti;

 anima mia, mentre in mortale oggetto
 scorgi ch'eterno è quel che dentro avampa,
 allarga il seno al sempiterno zelo:

 e vi rimembri che sì chiara lampa,
 sì soave tenor, spirto sì chiaro,
 sono a voi scala da salire al cielo.


 6. -- Dello stesso

 Amore ad ora ad or battendo l'ale
 dal grave incarco leva il mio pensero,
 e nel conduce per erto sentero
 a gir in parte, ove uom per sè non sale.

 E quivi ne l'oggetto alto e immortale
 gli dimostra l'esempio vivo e vero,
 onde discese il nostro spirto altero
 a dover informar cosa mortale.

 L'anima accesa a l'eterna vaghezza,
 tutta s'accende a far novo disegno
 del bel, ch'entro dipinge il divo aspetto.

 Ma come poi si move il basso ingegno,
 donna mia, per salire a tanta altezza,
 cade lo stile, e manca l'intelletto.



 7. -- Dello stesso

 Superbo Po, ch'a la tua manca riva
 tutto lieto ti volgi d'ora in ora,
 per mirar lei, che le tue piaggie infiora,
 e ti fa in mezzo l'onde fiamma viva;

 che fa la nostra, ho da dir Donna, o Diva,
 lei, che del ben del ciel l'alme innamora?
 Oh fosse lunga a lei la mia dimora!
 Pensa ella almen ch'io di lei pensi o scriva?

 Deh! com'io dico ognor: foss'io con lei
 così fosse talora il suo pensiero,
 or che dee far di me privo il meschino;

 oh vedesse ella aperti i dolor miei,
 ch'io so che di pietà quel spirto altero
 porteria gli occhi molli, e 'l viso chino.


 8. -- Dello stesso

 Or di là se ne vien questa dolce ora,
 ov'è colei che col suo divo aspetto,
 mette dentro al mio cor l'ardente affetto;
 ond'ancor la sua vista mi ristora.

 Oh se così potesse a ciascun ora
 essere a lei presente il mio imperfetto,
 come sempre la scorge il mio intelletto
 io sarei pur d'ogni tormento fora.

 Che se dal mover di quest'aura io sento
 per sua virtù conforto a i miei martìri,
 ben dovrei seco sempre esser contento.

 Battete l'ale o vaghi miei sospiri,
 e colà andando onde si parte il vento,
 a lei portate i miei caldi disiri.



 9. -- Dello stesso

 Lasso, onde avvien che qui non fa ritorno
 il chiaro dì, sì come altrove sole?
 Non ci risplende il lume di quel sole
 che solo suole a gli occhi tuoi far giorno.

 In questo altrui sì placido soggiorno,
 perchè son le campagne ignude e sole?
 Non ci spira il favor de le parole
 che fanno a sè fiorir le piaggie intorno.

 Poi ch'a te chiuse sono ambe le porte
 de gli occhi e de l'orecchie, anima mia,
 ond'esser può che più letizia speri?

 Pensa misero a te, chi ti conforte
 che me al mio bene ad ora ad or n'invia
 il santo amor con l'ale de i pensieri.


 10. -- Dello stesso

 Oh se tra queste ombrose e fresche rive,
 ch'or cercan solitarii i passi miei,
 meco ne fosse e con amor con lei,
 di cui 'l cor sempre parla e la man scrive;

 ella a seder qui presso a l'acque vive
 si porria in grembo a l'erba, io in grembo a lei,
 e da i boschi trarriano i semidei
 al sacro aspetto e le silvestre dive.

 Io lei mirando, a dir del suo valore
 snoderei la mia lingua, e alcun di loro
 segneria per li tronchi il chiaro nome;

 ella gioiosa e umile in tanto onore
 forse di varii fior, forse d'alloro,
 tesseria una ghirlanda a le mia chiome.



 11. -- Dello stesso


 Spirto gentile in cui sì chiaramente
 e ne la mortal parte e ne l'eterna,
 fiammeggia il sol de la bontà superna,
 ch'altro non è fra noi lume sì ardente;

 mentre io con gli occhi e con l'orecchie intente
 raccolgo il doppio bel, che mi governa,
 sì vivo foco in me da voi s'interna
 che tutta illuminar l'alma si sente;

 poi, non capendo in me l'immensa fiamma,
 convien ch'in alcun modo esca di fore,
 mostrando i raggi de la vostra luce.

 Così da voi ne vien lo mio splendore,
 ch'ogni mio bel disio da voi s'infiamma,
 come 'l lume de' lumi in voi traluce.


 12. -- Dello stesso

 Fiamma che chiaramente il mio cor ardi:
 aura che dolcemente mi ristori:
 spirto che alteramente m'innamori
 col valor, con la voce, con gli sguardi;

 quante volte avvien ch'in voi riguardi,
 ch'io v'ascolti e ch'io pensi i vostri onori,
 tante mi sforzo a i sempiterni cori;
 ma 'l mio mortal fa poi che 'l gir ritardi.

 O beata alma, angelica armonia,
 o vivo lume, che degli alti chiostri
 mostrate esempio a l'anime terrene,

 poi ch'a i sensi e nel cor m'avete mostri
 la bellezza e 'l piacer del sommo bene,
 aiutatemi ancor a l'alta via.



 13. -- Dello stesso

 Spirto felice, in cui sì rare e tante
 grazie e virtuti il ciel largo comparte,
 che non so se si trovi in altra parte
 che d'andar teco a paro alma si vante:

 s'a me facesser le sorelle sante
 del bramato lor don così gran parte,
 ch'io fossi degno di ritrarre in carte
 de la tua chiara effigie il bel sembiante:

 so ch'io fare' un disegno sì perfetto,
 che saria specchio a la futura gente
 di quanto ben di su tra noi discende.

 Ma, lasso, a tanto onor non mi consente
 il sacro coro: e da sè il mio intelletto
 sopra i fuochi celesti non ascende.


 14. -- Dello stesso

 Donna se mai vedeste in verde prato
 surger felicemente un aureo fiore,
 cui porge nutrimento dolce umore,
 e vivace calor dal ciel gli è dato;

 non altramente lieto e consolato
 fiorir si vede un'amoroso core,
 perchè 'l suo sole è 'l grazioso ardore,
 e la fonte è 'l favor del viso amato.

 E come quel, se manca la rugiada,
 perduto il bel de le purpuree fronde
 convien ch'in breve spazio a terra cada:

 così se rio voler o caso indegno,
 i suoi disiri altrui fura e nasconde,
 seccasi il fior d'ogni felice ingegno.



 15. -- Dello stesso

 Il valor vostro, Donna, il cor m'incende,
 lega ogni mio disir, m'impiaga il petto;
 e l'alma del suo mal sente diletto,
 dal ben ch'ella in voi vede, ode e intende.

 M'infiamma il divo raggio onde risplende
 il chiaro vostro angelico intelletto;
 da i novi accenti è avvinto ogni mio affetto,
 e da' begli occhi il colpo al cor discende.

 E non ha Amor in tutta la sua corte,
 m'oda chi vol, sì graziosi sguardi,
 sì chiara voce, o sì vivace lume.

 Perch'io pur prego lui, ch'ognor più forte
 con tal foco, in tai lacci e con tai dardi
 mi trafigga, m'annodi e mi consume.


 16. -- Dello stesso

 O novo esempio de l'eterna luce,
 alma gentile, ond'ogni alma più rara
 mirando la beltà ch'in te riluce,
 del vero amore i veri effetti impara;

 se del lume ch'in te dal ciel traluce,
 a l'alma mia non sarai punto avara,
 spero col raggio di sì altera duce
 farmi fiamma di fama al mondo chiara.

 Te canteran mie rime in ogni parte
 e diran que' ch'avran più vivo ingegno:
 qual fu quel foco onde tal lampo uscìo?

 Amor promette a te ne le mie carte
 nome immortale. O così fosse degno
 ne le tue d'aver vita il nome mio!



 17. -- Dello stesso

 In su le rive del superbo fiume
 ch'altrui già die' sepolcro in mezzo l'onde:
 ond'altri mutò il crine in verdi fronde,
 e altri si vestì di bianche piume;

 invaghito del dolce altero lume,
 lo qual di cielo in cielo in voi s'infonde,
 e con sua luce ogni altra luce asconde,
 arse 'l mio cor oltra mortal costume;

 poi sendo privo de gli amati rai,
 non so dove si chiuse il grande ardore,
 come fuoco ch'in cener si ricopra.

 Or rivedendo il vostro almo splendore,
 l'antica fiamma, chiara più che mai,
 convien ch'in riva d'Arno si discopra.


 18. -- Dello stesso

 Sogni chi vuol di riportar corona
 da gli alti gioghi del sacrato monte;
 altri s'attuffi nel famoso fonte
 che fa più chiaro 'l nome d'Elicona;

 sia gloria altrui se la sua lira suona
 aver le sacre Muse al cantar pronte;
 cinga altrui Febo la felice fronte
 de la fronde, che mai non l'abbandona;

 altri si vanti che benigna e lieta
 stella, a lui rivolgendo il suo splendore,
 a questa luce il fece uscir poeta;

 il mio Parnaso, il mio perpetuo umore,
 le mie Dive, il mio Apollo e 'l mio pianeta,
 è 'l valor vostro impresso nel mio core.



 19. -- Dello stesso

 Donna gentile, i cui beati ardori
 del celeste splendore e del mortale,
 spargon virtù che mentre i cori assale,
 ne l'alme accende mille eterni amori;

 se 'l vostro sole interno e 'l bel di fuori,
 a voi da me n'han tratto il mio immortale:
 e se Amore al mio stile impenna l'ale
 da gir portando al Cielo i vostri onori;

 se cara sete a me più di me stesso;
 s'a voi ne volar tutti i miei sospiri;
 se con voi vivo e senza voi son morto;

 se mi vedete 'l cor ne gli occhi espresso,
 e le mie pene, e i miei caldi disiri,
 ben dovreste pensare al mio conforto.


 20. -- Dello stesso

 Quando, com'Amor vuol, la donna mia,
 tra soavi sospiri e dolci accenti,
 move la lingua a angelici concenti,
 e l'aura del bel petto a l'aere invia;

 al suon de la dolcissima armonia
 ferman le penne i tempestosi venti;
 stanno i giri del ciel taciti e intenti;
 e non ch'altri, ma Febo il corso oblìa.

 E qual alma mortal la mira e ascolta,
 ad ogni uman disìo tutta si toglie
 e con tutti i pensieri al cielo aspira.

 La mia, che mai da lei non si discioglie,
 col vago spirto suo da Amore accolta
 a quel si stringe, e 'ntorno a lei s'aggira.



 21. -- Dello stesso

 Ebbe la favolosa antica etade
 chi co 'l tenor di feri e dolci canti
 e con novo splender di rea beltade,
 allettando affogava i naviganti:

 e or donata ci ha l'alta bontade
 donna, che con l'ardor de gli occhi santi
 e con note d'amor e di pietade,
 rende porto e salute a l'alme erranti.

 Voi, Donna mia, voi sete alma sirena
 voi, voi Tullia gentil, che fido lume
 nel mar d'amor porgete e placid'aura.

 La vista vostra angelica, serena,
 fa ch'in voi l'altrui vita ognor s'allume,
 e 'l cantar d'ogni affanno ci restaura.


 22. -- Dello stesso

 Già vide alle sue sponde il gelid'Ebro
 Orfeo cantare, e tacite ascoltarlo
 varie fere e augelli, e seguitarlo
 quercia, popolo, abete, olmo e ginebro.

 Vista ha 'l gran Po, veduta ha 'l chiaro Tebro,
 vede 'l bel Arno, a cui sovente parlo
 quel che mi detta l'amoroso tarlo
 cantar la donna, ch'io sempre celebro;

 ma se colui seguiano e sassi e sterpi,
 questa ogni alma più dura e più silvestra
 trae dal grave suo incarco, e al ciel la scorge.

 Beata voce, che dal cor mi sterpi
 ogni vil cura, onde per te s'addestra
 l'alma a salir ove per sè non sorge.



 23. -- Dello stesso

 Donna, a cui 'l santo coro ognor s'aggira
 de l'alme Muse e la cui chiara fronte
 verdeggia de l'onor del sacro Monte,
 ove chi s'erge eterna vita spira:

 qual anima gentil v'ascolta e mira
 brama far vostre grazie al mondo conte;
 poi non trovando rime al cantar pronte
 com'è la voglia, duolsi e ne sospira.

 Di così bello, raro e alto suggetto,
 dal vostro infuori, ogni altro stile è indegno;
 quel sol n'è degno e altro non v'arriva.

 Io per molto provar, vero disegno
 di voi non feci mai; ma dentro 'l petto
 ben vi porto scolpita, bella e viva.


 24. -- Dello stesso

 La sembianza di Dio che 'n noi risplende
 di cielo in cielo e c'ha nome beltade
 e move Amor, per perigliose strade
 de l'orecchie e de gli occhi al cor discende;

 perchè dal senso il senso il bello apprende,
 e 'n la natura nostra è qualitade
 ch'in mortal disiderio il mortal cade,
 e così bassa voglia il senso accende.

 Ond'è ch'ingombro di piacer terreno
 entrando il mal fidato messaggero
 fa ne l'alma sentir del suo veleno.

 Quinci è che talor cade il mio pensero:
 ma voi, ch'avete in man la verga e 'l freno,
 ne 'l ridrizzate per erto sentero.



 25. -- Dello stesso

 Dal mio mortal co 'l mio immortal m'involo
 sovente o Donna, e da me stesso sciolto,
 al bel vostro splendor tutto rivolto,
 l'ali battendo al ciel mi levo a volo.

 E lontanato dal terrestre suolo
 giungo a l'esempio de l'amato volto,
 donde è tutto quel bello in voi raccolto,
 che fa 'l mio amor fra gli altri in terra solo.

 Deh! vi priegh'io per le bellezze vostre,
 Tullia, ch'al bel camin compagna eterna
 mi siate, senza mai voltarvi a dietro.

 Ch'amor, s'ancor da voi tal grazia impetro,
 promette a noi tranquilla pace interna,
 e certa gloria a i nomi e a l'alme nostre.


 26. -- Dello stesso

 Donna, più volte m'ha già detto Amore
 che nell'anima vostra i miei pensieri
 son tutti espressi così vivi e veri
 com'io voi, viva, ho impressa in mezzo 'l core;

 e ch'accesi del vostro alto splendore
 ne van vostri disir cotanto alteri,
 ch'a mortal non convien che da voi speri
 altra mercede ch'immortal dolore.

 Così dice egli, e io per prova il sento,
 che quant'uom più vi serve e più v'adora,
 voi del suo mal più vi mostrate vaga;

 per tutto ciò d'amarvi io non mi pento:
 anzi bramo ch'in me più d'ora in ora
 veder possiate quel che più v'appaga.



 27. -- Dello stesso

 Se ben gli occhi e l'orecchie alcuna volta
 vi mostran tale a i miei bassi disiri,
 che surgon dal mio core agri sospiri
 ond'è ch'al lamentar la lingua è sciolta;

 tosto che l'alma in sè stessa raccolta,
 a l'alma vostra avvien che si raggiri,
 in diletto si cangiano i martiri
 e la mia lingua a ringraziar si volta.

 Che la pena, che par che sì mi prema
 non passa oltra 'l mortal; ma la dolcezza
 acqueta i sensi e pasce lo intelletto.

 Donna sia benedetta quella asprezza,
 ch'anzi 'l chiuder de gli occhi all'ora estrema,
 morire insegna al mio terreno affetto.


 28. -- Dello stesso

 Donna, l'onor de' i cui be' raggi ardenti
 m'infiamma 'l core e a ragionar m'invita,
 perchè sia nostra penna mal gradita,
 l'alto nostro sperar non si sgomenti.

 Rabbiosa invidia i velenosi denti
 adopra in noi mentre 'l mortal è in vita;
 ma sentirem sanarsi ogni ferita
 come diam luogo a le future genti.

 Vedransi allor questi intelletti foschi
 in tenebre sepolti, e 'l nostro onore
 viverà chiaro e eterno in ogni parte.

 E si vedrà che non i fiumi Toschi,
 ma 'l ciel, l'arte, lo studio e 'l santo amore,
 dan spirto e vita ai nomi e a le carte.



 29. -- Dello stesso

 Donna, il cui grazioso e altero aspetto
 e 'l parlar pien d'angelica armonia,
 scorgon qual alma presso a lor s'invia
 a contemplar il ben de l'intelletto;

 deh, così amor non mai m'ingombri 'l petto
 d'umil disir, nè mai di gelosia
 gustiate 'l tosco: e sempre intenta sia
 a l'interna beltate il vostro affetto.

 Date, vi prego a me vera novella
 de l'alma mia che del mio cor uscita,
 voi seguendo, è venuta a farsi bella:

 che se da voi la misera è sbandita,
 ella senza voi stando e io senz'ella,
 non ritrovo al mio scampo alcuna aita.


 30. -- Dello stesso

 Quai d'eloquenza fien sì chiari fiumi
 luce che d'alto ardor mio core incendi,
 ch'aguagli tua virtù? Se la 've splendi
 a superno desio l'anime impiumi?

 Come dinanzi a Borea nebbie e fumi,
 così di là, dove tu i raggi stendi,
 fugge ogni vil pensier, sì ch'a noi rendi
 a vita in terra de i celesti numi.

 E poi ch'a me non son tuoi lumi scarsi
 di quel splendor, che da l'eterno regno
 in te disceso, tu fra noi comparti;

 di quel ch'ho dentro e fuor non può mostrarsi,
 faranno al mondo manifesto segno
 l'amarti, il celebrarti e l'onorarti.

 [Risposta al sonetto della TULLIA: _Fiamma gentil che da gl'interni lumi_.]



 31. -- Di Benedetto Varchi

 Quando doveva, ohimè, l'arco e la face,
 l'una spenta del tutto e l'altro stanco,
 a questo ardito e tormentoso fianco
 per suo gran danno e mio, troppo vivace,

 non breve tregua pur, ma eterna pace
 donar, poi che nel lato destro e manco
 per le nevi del capo omai vien bianco
 il crin fatto d'argento, che sì spiace;

 più che mai fresco e più che mai cocente,
 mi saetta lo stral, m'accende il foco
 di tal ferite e così caldo ardore,

 ch'ogni salute a mio soccorso è poco:
 anzi cresce la piaga e fa maggiore
 incendio, ch'al suo mal l'alma consente.


 32. -- Dello stesso

 Donna, che di bellezza e di virtude
 e d'ogni alto valor gran tempo in cima,
 sola fra tutte l'altre non che prima,
 piovete ne' miglior senno e salute;

 ben so ch'a dir di voi sarebber mute
 le lingue tutte: e qual prosa nè rima
 poria cose aguagliar, che poscia o prima
 non furon mai, nè saran mai vedute?

 Tacciomi dunque fuor gelato e fioco,
 per tema di scemar sì chiare lodi,
 ma dentro infino al ciel notte e dì grido:

 ringraziando le stelle, il tempo e 'l loco,
 gli sguardi, gli atti, le parole e i modi,
 che mi donaro a cor gentile e fido.



 33. -- Dello stesso

 Io non miro giammai cosa nessuna,
 o in terra, o in ciel, ov'io non veggia quella,
 ch'amor in sorte e mia benigna stella,
 da le fasce mi diero e da la cuna.

 Ogni nube m'assembra e sole e luna
 la mia donna gentil più d'altra bella;
 monte o valle non veggio, o poggio, ov'ella
 per lo mio ben non sia, ch'è nel mondo una.

 L'erbe, gli alberi, i fior, le frondi, i sassi,
 mi rappresentan sempre, e l'onde, e l'ora,
 quel viso dopo il qual nulla mi piacque.

 U' gli occhi giro, ovunque movo i passi,
 nulla non scorgo, o penso, o sento fuora
 di lei, che per bearmi in terra nacque.


 34. -- Dello stesso

 Se di così selvaggio e così duro
 legno sì aspro frutto, ohimè, v'aggrada:
 chi fia ch'unqua vi miri e poscia vada
 di non sempre penar, Donna, securo?

 Bench'io, poi ch'ognor più m'inaspro e induro
 del duol, cui lungo a voi fo larga strada
 de la mia pena sola, non pur rada
 fra quante sono al mondo e quante furo,

 dovrei trovar pietà, ch'asprezza eguale
 o più selvaggia e solitaria vita,
 non sentì mai e visse alcun mortale.

 Fera legge d'amor, sperar aita
 del dolor che n'ancide, e del suo male
 pascer l'alma, via più che saggia, ardita.



 35. -- Dello stesso

 Pur non sentir la turba iniqua e fella
 così larga al mal dir, come al ben parca,
 da lei, che nel mio cuor siede monarca,
 non men cortese che leggiadra e bella;

 non mio voler seguendo ma mia stella,
 parto col corpo sol, che l'alma scarca
 de la soma mortal meco non varca,
 ma riman seco obediente ancella.

 E se quel, che fra me tacito e solo
 cantando vo' con più di mille insieme,
 per la Garza, e Forcella, e Tavaiano,

 udisse pur un dì l'invido stuolo
 ben morria di dolor veggendo vano
 tornar l'empio ardir suo, ch'indarno freme.


 36. -- Dello stesso

 Se da i bassi pensier talor m'involo
 e me medesmo in me stesso ritorno;
 s'al ciel, lasciato ogni terren soggiorno,
 sopra l'ali d'amor poggiando volo:

 quest'è sol don di voi, Tullia, al cui solo
 lume mi specchio e quanto posso adorno
 la 've sempre con voi lieto soggiorno,
 da santo e bel disio levato a volo.

 E se quel che entro 'l cor ragiono e scrivo,
 del vostro alto valor Donna gentile,
 ch'avete quanto può bramarsi a pieno

 ridir potessi, o beato, anzi Divo
 me, per me proprio tutto oscuro e vile
 se non quant'ho da voi pregio e sereno.

 [Risposta al sonetto della TULLIA: _Quel che mondo d'invidia empie e
 di duolo_.]



 37. -- Dello stesso

 Ninfa, di cui per boschi, o fonti, o prati,
 non vide mai più bella alcun pastore
 ver di Diana e de le Muse onore,
 cui più inchinano sempre i più pregiati:

 così siano a Damon men feri i fati
 nè gli renda mai Filli il dato core;
 e ella arda per lui di santo amore
 più ch'altri fosser mai lieti e beati:

 com'alma esser non può sì cruda e vile,
 la quale essendo veramente amata
 non ami un cor gentil già presso a morte.

 Dunque s'a dotto no, ma fido stile
 credi, ama e non dubbiar, che ben pagata
 sarà d'alta mercè tua dolce sorte.

 [Risposta al sonetto della TULLIA: _Se 'l ciel sempre sereno e verdi i
 prati_.]


 38. -- Di Giulio Camillo

 Tullia gentile, a le cui tempie intorno
 verdeggia avvolta l'onorata fronde,
 e la cui voce a l'armonia risponde
 di chi fa in Elicon dolce soggiorno;

 qualora a voi fo col pensier ritorno
 e ritrovo sentenze sì profonde
 in sì leggiadro stil, sì mi confonde
 novello orror, ch'in me più non soggiorno.

 Vostra Musa di me cantando canta
 d'uno sterpo silvestro, a cui nemica
 stata è natura e 'l ciel, e io no 'l celo.

 Ben è la vostra fortunata pianta,
 che lieto il Re de' fiumi la nutrica,
 e la rinforza il gran Signor di Delo.



 39. -- Dello stesso

 Poi ch'a la vostra tanto alma beltade,
 onde pregiata d'onorate e rare
 spoglie di tante elette anime chiare
 n'andate altero specchio ad ogni etade;

 piace ch'io ancor per le medesme strade
 seguir vostre amorose insegne impare;
 non siano almen vostre alme luci avare
 di quel raggio, ond'io scorgo ogni bontade.

 E nel bel petto vostro Amor ispiri
 pietà e mercede al mio dolore eguale,
 e a gli ardenti intensi miei disiri;

 poi se le aggrada il mio destin fatale,
 versi in me pur ognor doglie e martiri,
 che dolce mi fia sempre ogni altro male.


 40. -- Dello stesso

 Ben fu tra gli altri avventuroso il giorno,
 quando l'eterno e gran re de le stelle
 fece, per fare il fior de l'altre belle,
 di voi, Tullia divina, il mondo adorno.

 Le grazie tutte e le virtuti intorno
 vi fur quasi devote e fide ancelle,
 e 'l ciel lasciaro per seguitarvi quelle
 in questo nostro umil, basso soggiorno;

 però ripiena di celeste ardore,
 di gloria accesa e colma di mercede;
 vaga di bello e di perpetuo amore:

 di grazia albergo e di bellezza erede,
 sola fra noi vivete in dolce amore,
 del ben del Ciel facendo in terra fede.



 41. -- Del Cardinale Ippolito De' Medici

 Anima bella, che nel bel tuo lume
 divino interno ti rivolgi e giri,
 e indi in voce dolcemente spiri
 il suon ch'avanza ogni mortal costume;

 onde la mia poi d'amorose piume
 coverta avien che al ciel volando aspiri,
 e nel tuo chiaro raggio aperto miri
 com'amor sani, ancida, arda e consume;

 deh! se l'alta bellezza e 'l dolce canto
 ond'in te stessa sol beata sei:
 e s'amor punto mai ti piacque o piace:

 prego volgendo in me 'l bel viso santo,
 al lungo penar mio dia qualche pace,
 e qualche tregua a gli aspri dolor miei


 42. -- Dello stesso

 Se 'l dolce folgorar de i bei crini d'oro,
 e 'l fiammeggiar de i begli occhi lucenti,
 e 'l far dolce acquetar per l'aria i venti
 co 'l riso, ond'io m'incendo e mi scoloro,

 son le cagion che per voi vivo e moro,
 piango e m'adiro e fo restar contenti
 gli spirti afflitti in mezzo i miei lamenti,
 e mi par dolce il grave aspro martoro;

 non voi sì bella, io non così bramoso;
 voi non sì dura, io non sì frale almeno
 fossi; non voi d'amor rubella, io servo;

 ch'io sperarei nel stato mio gioioso
 goder un giorno almen lieto e sereno,
 piegando alquanto il core empio e protervo.



 43. -- Di Bernardo Molza

 Spirto gentil, che riccamente adorno
 de i più pregiati e cari don del cielo,
 cortesemente nel corporeo velo
 con tue virtuti fai lieto soggiorno;

 deh! s'amor sempre a te faccia ritorno,
 di nove spoglie ornando, al caldo e al gelo,
 d'uomini e Dei il tuo onorato stelo,
 e cresca il valor tuo di giorno in giorno;

 fa che 'l nobile tuo chiaro intelletto,
 sempre guardando a la più bella parte
 di sè, giammai non si rivolga a terra.

 Ch'allor vedrai come natura ed arte,
 soavemente in te rinchiude e serra
 d'ogni bell'opra il seme e 'l bel perfetto.


 44. -- Dello stesso

 Se 'l pensier mio, ov'altamente amore,
 Tullia gentil, vostra sembianza impresse,
 tutto altamente in sè voi tutta espresse
 dal piacer vinto, che mi strinse il core;

 e tutta or vi risembra e a tutte l'ore,
 trasformando pur sempre in quelle stesse
 virtù, grazia e beltà, che vi concesse
 Dio, ch'in voi tutto intese a farsi onore:

 non dovete voi dir ch'io sia deforme,
 ch'io son quello che son fatto voi
 bello, e non questa rozza e fragil scorza.

 E spero ancor, seguendo ognor vostr'orme,
 essere appresso Dio 'l secondo poi,
 se 'l bello a trarre il bello sempre ha forza.



 45. -- Di Ercole Bentivoglio

 Poi che lasciando i sette colli e l'acque
 del Tebro oscure e le campagne meste,
 d'illustrar queste piagge e premer queste
 rive del Po col piè Tullia vi piacque;

 ogni basso pensier spento in noi giacque,
 e un dolce foco, e un bel disio celeste,
 quel primo dì ch'a noi gli occhi volgeste,
 ne le nostre alme alteramente nacque.

 Fortunate sorelle di Fetonte,
 ch'udir potranno a le lor ombre liete,
 i dotti accenti che vi ispira Euterpe!

 Potess'io pur con rime ornate e pronte
 com'è 'l disio, dir le virtù ch'avete!
 Ma troppo a terra il mio stil basso serpe.


 46. -- Dello stesso

 Vaghe sorelle, che di treccie bionde
 ornò natura e di fattezze conte;
 poi la pietà del misero Fetonte
 vi volse in duri tronchi e 'n verdi fronde;

 or sotto l'ombre tremule e gioconde
 vostre sedendo, fo palesi e conte
 le gran beltà de la celeste fronte
 di Tullia mia, cantando a l'aure e a l'onde.

 Così già sotto i vostri ombrosi rami
 cantò d'Onfale sua gli occhi e le chiome
 il vincitor de' più superbi mostri.

 'priego il ciel, che sì v'esalti e v'ami,
 ch'eterno sia con voi sempre il bel nome
 di Tullia scritto in tutti i tronchi vostri.



 47. -- Di Filippo Strozzi

 Alma gentile, ove ogni studio pose
 natura in darvi a pieno ogni eccellenza,
 e fece il ciel quasi restarne senza
 per dar a voi quel bel, ch'a ogni altra ascose;

 voi fra leggiadre donne e gloriose
 elesse sola; e per esperienza
 si vede altera andarne oggi Fiorenza
 de le belle opre vostre alte e famose.

 Ma non solo Arno oggi vi loda e canta,
 ma dove ancora l'inesperto auriga
 cadde, di voi terrà memoria eterna.

 Il Tever lascio, che tenera pianta
 vi nutrì, dolce essendo ogni fatiga
 a chi co 'l spirto e 'l core in voi s'interna


 48. -- Dello stesso

 Uscendo 'l spirto mio per seguir voi,
 Donna gentile, in voi vera pietade
 spinse l'anima vostra a le contrade
 ond'egli uscìo, con che vivessi io poi;

 tal che 'l splendor, che dite uscir tra noi
 di me, è propria vostra qualitade,
 concessavi da l'alta e gran bontade,
 per sembianza de i chiari raggi suoi.

 Dove scorger si puote un dolce inganno
 veggendovi in me vaga di voi stessa,
 nè v'accorgete ch'io v'appago a punto

 Che se mi vi toglieste allora il danno
 mortal mio vedreste, e fora espressa
 la colpa vostra, send'io a morte giunto.



 49. -- Di Alessandro Arrighi

 L'aspetto sacro e la bellezza rara,
 eguale a cui non ebbe il mondo ancora;
 il folgorar de gli occhi ch'innamora
 il mondo tutto, e quasi sol lo schiara;

 il parlar saggio, onde la via s'impara
 di gir al chiaro e uscir dal fosco fora;
 e l'alto sangue, lo cui ammira e onora
 chiunque adorno è più di stirpe chiara;

 i bei costumi, e 'l portamento adorno;
 e col dolce cantare il dolce suono
 che fan di marmo una persona viva,

 fur le cagioni o donna, ch'in quel giorno
 stetti a mirare il bello, a udire il buono,
 in guisa d'uom che pensi, parli e scriva.


 50. -- Dello stesso

 Come di dolce più che d'agro parte,
 Donna mi feste il dì, ch 'l colpo caro
 di voi impiagommi, onde sì ardente e chiaro
 foco poscia avampommi a parte a parte,

 così men d'agro, che di dolce parte
 da me per guiderdon del dono raro;
 e giunge a voi per addolcir l'amaro
 vostro languir del tutto non che 'n parte;

 il foco ch'io dovrei mandarvi ancora
 per render merce pari al degno merlo,
 meco si sta, nè vuol partirsi un'ora.

 Selva chiusa non è, nè campo aperto,
 nè giardin culto, o poggio aspro o deserto,
 che non sappian com'ei m'arde e divora.



 51. -- Dello stesso

 S'il dissi mai ch'io venga in odio a voi,
 Donna, ch'io tanto pregio, ed è ben degno;
 s'il dissi che mai sempre ira e disdegno
 portiate in seno, e sol me stesso annoi;

 s'il dissi che 'l mortale eterno muoi
 di me non mai giungendo al santo regno;
 s'il dissi sia d'amor prigione e segno
 de l'acuto suo strale, e preda, poi.

 Ma s'io nol dissi chi si dolce aprìo
 a me lo cor chiudendovi entro i raggi,
 non mai rivolga altronde il lume chiaro.

 Io no 'l dissi giammai, nè dir disìo:
 vinca 'l ver dunque, e 'l falso a terra caggi,
 e 'n dolce amor ritorni l'odio amaro.


 52. -- Dello stesso

 S'un medesimo stral duo petti aprìo:
 s'arse due cor d'amor un foco santo:
 se nascendo 'l piacer morì cotanto
 martir, che l'uno e l'altro già sentìo,

 Donna, e s'insomma nudrì ambo un disio,
 ond'è ch'in me del dir vostro altrettanto
 non rivolgete sì, ch'io mi dia vanto
 d'esser d'uom fatto un'immortale Dio?

 Forse sì come sempre ebbi nimica
 la stella a i miei disir, così avien ora
 ch'io non goda e non sorti una tale brama.

 O pur ch'ad alma sì saggia e pudica
 parlar di me basso suggetto fora:
 come che sia il bel vostro a sè mi chiama.



 53. -- Di Benedetto Arrighi

 Voi che volgete il vostro alto disio
 a la chiara virtù, donde si coglie
 quelle onorate, sacre, sante spoglie,
 di che va altera e Calliope e Clio;

 voi che schernite al tempo quell'oblio,
 che la fama immortale al nome toglie,
 colpa e vergogna de l'umane voglie,
 che non son come voi rivolte a Dio;

 voi sol vi sete fabricato un tempio
 di glorie tal, che gli onori e trofei
 non pon lasciar di lui più chiaro esempio;

 deh! così potess'io com'io vorrei
 le virtuti cantar, ch'in voi contemplo
 memoria eterna a gli uomini e a li Dei.


 54. -- Dello stesso

 Alma gentile che già foste al paro
 de l'alta e gran colonna, oggi si mostra
 in voi tutto l'onor de l'età nostra;
 in voi lo stil più che 'l suo dolce e caro;

 al vostro stil, dov'io ch'al mondo imparo
 a riverir la chiara virtù vostra,
 ch'oggi solinga l'universo giostra
 non trovando di lei pregio più chiaro;

 sì come un picciol lume alta chiarezza
 vince, così con vostre lodi sole
 lei vincete in virtute e in bellezza;

 l'alto motor come 'l ciel ornar vole
 la terra, piacque a sua reale altezza
 far Vittoria una Luna e Tullia un Sole.

 [V. 14 Vittoria Colonna.]



 55. -- Di Lattanzio De' Benucci

 Se per lodarvi e dir quanto s'onora
 di voi natura e 'l ciel, Tullia gentile,
 fosse eguale al soggetto in me lo stile,
 e 'l saper pari a l'alta voglia ancora;

 forse non tanto il secol nostro indora
 vostra virtute, e non dal Gange al Tile
 fate voi co' i begli occhi eterno aprile,
 quant'io n'avrei grazie e favori ognora.

 Non può ingegno mortal tante divine
  virtù ritrar; nè può basso disìo
 scolpir parti sì eccelse e pellegrine,

 che 'n voi il valor del vago petto e pio
 avanza ogni pensier, passa ogni fine,
 non che l'aguagli altrui parlare, o mio.


 56. -- Dello stesso

 O fiumicel se 'l più cocente ardore
 estivo il lento tuo correr affrena,
 e la tua profonda umile arena
 incende e fa restar priva d'umore;

 ecco a le rive tue novo splendore
 che l'aer d'ogni intorno rasserena:
 di colei, che cantando in dolce vena
 a le nove sorelle aggiunge onore.

 Onde il vecchio Arno ormai d'invidia pieno
 lascia l'usato corso e a te rivolto,
 quivi perde le chiare e lucid'onde;

 godi, or che vedi entro il tuo ricco seno
 la imagin bella del leggiadro volto:
 e Tullia odi sonar ambe le sponde.



 57. -- Dello stesso

 Deh, non volgete altrove il dotto stile
 altera donna, ch'a voi stessa, poi
 che scorge il mondo esser accolto in voi
 quant'ha del pellegrino e del gentile.

 Appo questo suggetto incolto e vile
 divien qual più pregiato oggi è tra noi;
 e co 'l splender de' vivi raggi suoi
 chiaro si mostra ognor da Battro a Tile.

 Voi dunque di voi sola alzare il nome
 dovete, poi ch'a sì pregiato segno
 giunger non puote il più purgato inchiostro.

 Quindi vedrassi apertamente come
 non è di lode altri di voi più degno,
 nè stil che giunga al dolce cantar vostro.


 58. -- Di Latino Giovenale

 Vide già la famosa antica etade
 nel palazzo reale alto di Roma
 donna empia sì, che fe' del carro soma
 al padre anciso, e spense ogni pietade.

 Vede or donna real di tal beltade
 la nostra, e Roma, e da colei si noma;
 che chi mira i begli occhi e l'aurea chioma
 di piacer, d'amor empie e d'umiltade.

 Questa sol per mio ben, per mio sostegno
 al mio imperfetto, a la fortuna avversa
 diede natura, e 'l ciel cortese e largo.

 O gloria de le donne, o ricco pegno
 d'onor, d'ogni virtù ch'oggi è dispersa:
 deh! perchè non ho io gli occhi ch'ebbe Argo?



 59. -- Di Ludovico Martelli

 Voi, che lieti pascete ad Arno intorno
 il vostro gregge fra leggiadri fiori,
 godete, poi che da i superni cori
 discesa è Tullia a far con voi soggiorno

 sforzisi ognun co 'l crin d'alloro adorno
 gli altari empir de i più soavi odori;
 che per costei vostri tanti alti onori
 faranno ancor a voi degno ritorno.

 Quest'è la vaga pastorella, ch'ebbe
 fra i più degni pastor del Tebro il vanto;
 del cui partir restar sì afflitti e mesti;

 e poi che per voi sol non le rincrebbe
 lasciar le rive ove fu in pregio tanto,
 siate a cantarla e a riverirla presti.


 60. -- Di Simone Dalla Volta

 Tullia, mostrò (?), miracolo, Sibilla,
 di cui si maraviglia il mondo e gode:
 mar di saver, che non ha fondo o prode,
 e mena l'onda sua lieta e tranquilla.

 Da cui sì dolce umor, sì chiaro stilla
 di virtù vera ch'oggi rado s'ode:
 cui non guasta fortuna, o 'l tempo rode;
 men che quelle di Saffo e di Camilla.

 Ma che dico io? Il vostro alto valore
 non si può comparare a cosa alcuna:
 perchè non che 'l poter, passa il disio.

 Chi vuol vivo vedere in terra amore,
 divin, pien di virtù, miri quest'una,
 vera amica de gli angioli e di Dio.



 61. -- Di Camillo Da Monte Varchi

 Mosso da l'alta vostra chiara fama,
 di cui per tutto il mondo il grido suona,
 vengo cantarvi anch'io Tullia Aragona,
 cui chi più sa, più sempre ammira e ama.

 E s'adempir potessi ardente brama
 di salir l'alto monte d'Elicona,
 qual voi n'arrecherei degna corona,
 ch'al ciel vi porta, che vi aspetta e chiama.

 Or voi più d'altra saggia e più gentile,
 degnate di pigliar quanto vi porge
 un ch'a voi consacrato ha ingegno e stile.

 Ben so, vostra mercè, ch'altera e vile
 alma tanto non è, che quando scorge
 d'essere amata non divenga umile.


 62. -- Di Claudio Tolomei

 Quando la Tullia mia che vien dal cielo,
 che d'altronde non può sì bella cosa,
 umilemente altera e disdegnosa,
 toglie al mondo 'l suo sol con un bel velo;

 allora agghiaccia 'l fuoco ed arde 'l gelo,
 e Amor tremando l'armi in terra posa,
 vertù si fugge e cortesia sta ascosa,
 e spegnesi ogni ardente onesto zelo.

 Ma s'avvien poi che a le tranquille ciglia
 ridendo levi il velo, allor più incende
 il foco e 'l ghiaccio è freddo in ogni parte;

 virtù ritorna e Amor l'armi riprende
 ch'ella governa, e non è meraviglia
 ciò che può far 'l ciel, natura ed arte.

 [Sta nel: _Libro quarto delle rime di diversi eccellentissimi autori
 nella lingua volgare nuovamente raccolte_. In Bologna, presso
 A. Ciccarelli 1551, pag. 217.]



 63. -- Di Antonio Grazzini (_Lasca_)

 Se 'l vostro alto valor, Donna gentile,
 esser lodato pur dovesse in parte,
 uopo sarebbe al fin vergar le carte
 col vostro altero e glorioso stile.

 Dunque voi sola a voi stessa simile,
 a cui s'inchina la natura e l'arte,
 fate di voi cantando in ogni parte
 Tullia, Tullia, suonar da Gange a Tile.

 Si vedrem poi di gioia e maraviglia
 e di gloria e d'onore il mondo pieno,
 drizzare al vostro nome altare e tempï;

 cosa che mai con l'ardenti sue ciglia
 non vide il sol rotando il ciel sereno,
 o ne' gli antichi o ne' moderni tempi.


 64. -- Di Nicolò Martelli

 Se 'l mondo diede allor la gloria a Arpino
 d'eloquenza immortale alta e profonda,
 la vostra al nome egual gli vien seconda
 Tullia di sangue illustre e pellegrino;

 il cui spirto reale almo e divino,
 sovra l'uso mortal di grazie abonda,
 in guisa tal che l'onorata sponda
 De l'Arbia, infino al ciel tocca il confino.

 E 'l bel chiaro Arno ora di voi s'onora,
 l'antico fuor traendo umido crine,
 forma con l'acque in suon cotai parole:

 qual luce e questa o beltà senza fine,
 che col sommo valor le rive infiora
 al gel, come d'april nel mezzo il sole?



 65. -- Di Ugolino Martelli

 Se bella voi così le Grazie fero,
 che pari al mondo non fu mai nè fia;
 e se le muse con pietà natìa
 il dolcissimo latte ancor vi diero:

 qual piena voce e qual giudicio intero,
 il valor giunto a somma leggiadria,
 e scorgere e cantar sì ben potria,
 ch'almen di lungo ne apparisse il vero?

 Questi che vostri sono alteri onori,
 e fanno altrui veracemente adorno,
 scemar non può fortuna aspra e nimica.

 E questa spero che di giorno in giorno
 averete con doti assai maggiori,
 di fosca e trista, omai lieta e aprica.

 [Risposta al sonetto della TULLIA: _Più volte, Ugolin mio, mossi il
 pensiero _.]


 66. -- Dello stesso

 Se lodando di voi quel che palese
 di fuor si mostra a le più strane genti,
 rare bellezze e disusati accenti,
 degne parole a ciò mi son contese:

 com' esser vi potrà larga e cortese
 la lingua a dir, che non tema o paventi
 di tante ascoste in voi virtuti ardenti,
 Tullia, ch'amor divino al cor v'accese?

 Bontà, senno, valor e cortesia,
 con l'altre mille insieme in voi cosparte,
 rozzamente contar forse potria;

 ma come rara e eccellente sia
 ciascuna d'esse in voi, con mille carte
 Mantova e Smirna a dir non basteria.

 [V. 11. _Rozzamente cantar forse patria_.]



 67. -- Di Simone Porzio

 Or qual penna d'ingegno m'assecura
 di poter appressarmi al gran valore
 di quella che di pregio alto e d'onore,
 ornarmi con sue rime ha tanta cura?

 La debil pianta, mia da sè non dura,
 e se prende crescendo alcun vigore,
 nutrita è dal fecondo vostro umore,
 che tal frutto non vien d'altra coltura.

 Ma se di quella vostra le semente
 sempre mi trovo al petto, nè più spero
 sentir d'essa giammai cosa più degna,

 scorgete adunque col giudicio interno
 che tutte l'altre voghe in me son spente,
 e vive quel ch'amor di voi m'insegna.

 [Risposta al sonetto della TULLIA: _Porzio gentile a cui l'alma natura_.]




 LE AMOROSE EGLOGHE DEL MUZIO GIUSTINOPOLITANO
 ALLA SIGNORA TULLIA D'ARAGONA


 I.
 MOPSO

 Mopso, _solo_.


 Canti chi vuol le sanguinose imprese
 del fiero Marte, e d'onorati allori
 cinto le tempie a suon di chiara tromba
 desti i bianchi destrier, ch'in Campidoglio
 han da condur i purpurei trionfi;
 a me, cui 'l ciel non diè sì altero spirto,
 basta parlar tra le fontane e i boschi
 de gli onori di Pan; e che la fronte
 m'ornin le Ninfe d'edere e di mirti,
 mentre ch'al suon de le incerate canne
 fo risonar quella virtù che move
 dal vivo ardor de i lor splendenti lumi.

 E or darà al mio dir ampio suggetto
 l'amor del pastor Mopso; di quel Mopso
 lo qual sacrato ha infin da i teneri anni
 i sensi e l'alma al tempio di Parnaso.

 Il buon pastor, cercando le pendici
 de i santi gioghi, ha con novella cura
 novo oggetto trovato ai suoi pensieri;
 nova materia ha data a le sue rime:
 che l'interno splendore e 'l chiaro viso
 de la bella Tirrenia il petto ingombro
 gli ha sì del suo piacer, che la sua lingua
 d'altro non sa parlar, nè può, nè vuole
 che di lei, ch'or gli siede in mezzo l'alma.
 Ei non potendo un di 'l soverchio ardore
 chiuder dentro al suo cor, in tali accenti
 la strada aperse a la vivace fiamma.

 MOPSO. Bella Tirrenia mia, che di bellezza
 avanzi i più bei fior di primavera,
 morbida più che tenera vitella,
 ch'ancor non ha gustato erba nè fonte;
 e delicata più ch'i bianchi velli
 di non tonduto pargoletto agnello;
 e più schiva d'amor e più fugace
 ch'innanzi a cacciator timida cerva:
 odi, bella Tirrenia: a queste ombrette
 meco t'assidi, e i miei sospiri ascolta.

 Era ne la stagion ch'i verdi prati
 d'ogni intorno fiorian; fiorian le rose,
 e cantavan gli augei tra i novi fiori,
 quando prima ti vidi; e come prima
 ti vidi, così ratto al cor mi corse,
 mosso da la virtù de' tuoi bei lumi,
 con gelato timor caldo disio.
 Da quel dí innanzi entro 'l mio petto chiuso
 ho continuo portato il foco e 'l ghiaccio.
 E già due volte le campagne aperte
 visto han d'intorno biondeggiar le spighe:
 e due volte han veduto i salci e gli olmi
 le non lor uve su per li lor rami
 quai d'oro divenir, e quai vermiglie:
 e tu nel duro cor, ghiaccio nè foco
 crudel non senti, e non senti pietade.

 Sappi, ninfa gentil, che dal suo giro
 Venere bella per ciascuna parte
 rimira aperte l'opre de' mortali;
 e qual pastor, qual satiro e qual ninfa,
 contra chi l'ama è disdegnosa e schiva,
 la santa Dea ne sente altero sdegno,
 e dimostrar ne suole agre vendette,
 arder facendo i lor gelati cori
 d'amor di tal, che gli disprezza e fugge.
 Che doglia, che tormento, alma mia cara,
 credi che sia l'amar chi te non prezza?
 O tolga Dio, ch'in così amaro stato
 i' ti vegga giammai; Tirrenia intendi:
 non voler contra te l'ira de' Dei
 mover sì leggiermente: ama chi t'ama.
 Ama il tuo Mopso, il quale lode immortali
 va cantando di te mattina e sera;
 e va segnando intorno i sassi e i tronchi
 del nome tuo per farti eterna e chiara.
 Ama 'l tuo Mopso, il qual e giorno e notte,
 o vegghi, o dorma, di te pensa e sogna:
 te rimira, te cerca e te disia.
 Braman le pecchie gli odorati fiori:
 le molli gregge i rugiadosi paschi;
 brama 'l cervo assetato i chiari fonti;
 e te, Tirrenia, l'infiammato Mopso.

 Mostra, ninfa gentil, il bel sereno
 de la lucida tua tranquilla fronte;
 de la cui vista l'aere e 'l ciel d'intorno
 d'ogni parte s'allegra e si rischiara.

 Rivolgi a me i begli occhi: o occhi belli,
 occhi leggiadri, occhi amorosi e cari;
 più che le stelle belli e più che 'l sole:
 e a me cari più che armenti e gregge:
 più che la vita cari e più che l'alma.
 Occhi miei belli e cari, il chiaro lume
 volgete a me benigni: e non vi annoi,
 ch'arda del vostro ardor: e non v'incresca
 mirar talor com'io mi struggo e ardo.
 Oh ti fosse, Tirrenia, un giorno a grado
 di fermar così presso e così fisso
 que' tuoi begli occhi dentr'a gli occhi miei,
 ch'ogniun di noi facendo a l'altro specchio,
 con gli occhi suoi vedesse ne gli altri occhi
 il suo stesso ritratto e l'alma altrui.

 Volgi a me gli occhi: volgi gli occhi e volgi
 il chiaro viso e le polite guance,
 le molli guance ad ogni aura tremanti,
 che fan tremar in me l'anima e i sensi
 di diletto, di voglia e di dolcezza.

 Ma qual'è quel diletto e quella voglia?
 Qual la dolcezza che sentir mi face
 il veder e l'udir le dolci labbra?
 Quelle labbra amorose, dolci e care,
 or dolcemente chiuse, or dolce aperte,
 spirar per gli occhi e per l'orecchie mie
 a l'alma mia dolcissimo veleno?
 O misti insieme fior vermigli e bianchi:
 o sparso tra be' fior soave odore:
 o bramose mie labbra: o spirto ardente:
 o anima mia accesa: e qual desire
 tutto m'infiamma? E qual'è quel conforto
 che mi promette il bel, che s'ode e vede?
 Apri, Tirrenia, le rosate porte:
 mostra, Tirrenia, i candidi ligustri:
 spargi, Tirrenia, in graziosi accenti
 l'ambrosia e 'l mel de l'amorosa lingua.
 Di', Tirrenia, una volta: te solo amo,
 al fedel Mopso tuo, che te sola ama.
 Dillo, Tirrenia, e scopri il caro seno,
 apri 'l giardin d'amor, dimostra al sole
 i dolci pomi e gli odorati gigli.
 Leva, Tirrenia, l'inimico velo
 ch'a te'l tuo bel, a me 'l mio ben nasconde.
 Invido avaro velo: avara mano,
 crudo velo; man cruda e crudo core,
 che tanto bene a gli occhi miei contendi.

 Ninfa crudele, e perché con tant'arte
 sì fieramente a' miei desir contrasti?
 Ninfa crudele infin a gli occhi miei,
 a gli occhi miei, crudele, hai posto 'l freno.
 Deh, leva 'l velo omai, levane i nodi;
 leva la crudeltà del natio petto:
 lascia andar gli occhi vaghi al lor diporto
 tra i diletti di Flora e di Pomona,
 là ve vaga beltà, bella vaghezza
 movon d'intorno le purpuree penne,
 e fan festa ad Amor, che la sua fede
 ha locata tra 'l bel de i cari pomi.
 Man bella, cara man disciogli il laccio,
 allarga il velo, o mano: a la man mia
 sii cortese man cara: a la mia sete
 porgi alcun refrigerio poi ch'invano
 prego 'l petto crudel, e 'nvano aspiro
 a la beltà de le purpuree gote,
 invano al bel de le rosate labbra.

 Ninfa bella e crudele, in cui combatte
 bellezza e crudeltà, come non hai
 qualche pietà di me? Le selve e gli antri
 piangono al pianto mio; meco si lagna
 eco non men del mio che del suo duolo:
 e sovente gli augei su per li rami
 muti si fanno a le mie doglie intenti:
 e le gregge rivolte a i miei sospiri,
 i paschi e i fonti mandano in oblio.
 E tu sola se' nuda di pietade.

 Vien, Ninfa bella, e fra le molli braccia
 raccogli quel, che con le braccia aperte
 disioso t'aspetta; e nel tuo grembo
 ricevi lieta l'infocato amante;
 stringi 'l bramoso amante, e strette aggiungi
 le labbra a le sue labbra, e 'l vivo spirto
 suggi de l'alma amata, e del tuo spirto
 il vivo fiore ispira a le sue brame.
 Giungansi insieme gli amorosi petti:
 premer si sentan le vezzose poppe,
 le belle poppe delicate e sode,
 dal petto ad amor sacro e sacro a Febo,
 non si ritengan più celate o chiuse;
 le belle membra tue morbide e bianche
 più che 'l cacio novello e più che 'l latte,
 ad amor le consacra: e al tuo amante
 qual vite ad olmo avviticchiata e stretta,
 con lui cogli d'amore i dolci frutti.



 II.

 IL SOLE

 Mopso, solo.

 Già fiammeggiava presso a l'aurea Aurora
 il pianeta maggior nell'oriente,
 inargentando i nuviletti d'oro:
 quand'io, ch'avea col fischio e con la verga
 scorta mia greggia a i rugiadosi paschi,
 posto a seder sott'una antica quercia,
 notava intento il dilettevol suono,
 che d'intorno facean le pecorelle
 tondendo il verde de l'erboso suolo.
 Ed ecco l'armonia d'una zampogna
 sonar non lunge. Io da le dolci note
 tratto, e lasciando il mio maggior pensiero,
 in piè risorto, cheto, passo passo,
 ver là mi mossi, e vidi a piè d'un faggio
 sedersi un solo. E quanto gli occhi miei
 scorger potero in quella incerta luce
 mi parve Mopso; Mopso a cui le selve
 son testimonie quanto a l'alme Muse,
 e quanto ei sia ad Amor fedele amico.
 E quale in pria mi parve, tal la voce
 e 'l chiaro giorno poi mostrolmi aperto.
 Quivi vago d'udir suoi dolci accenti
 dietro una macchia stretto mi raccolsi.
 E egli omai spuntando il primo raggio
 del novo giorno, al dir la lingua mosse,
 accompagnando il suon con tai parole:

 MOPSO. Sorgi omai chiaro sole, e 'l ciel aprendo
 l'aer rischiara; e 'l mare intorno imbianca;
 la terra alluma; e 'l desiato giorno
 riporta a gli animali e ai pastori.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 Se non hai sole e se colei non ave
 cosa simil, ben posso dir di voi,
 che tu se' a lei, ed ella a te simile.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 Solo se' sol, ch'in tutti gli alti giri
 lume non è ch'al tuo lume s'aguagli,
 nè lassù fuoco v'ha che t'assimigli.
 E sola è sol in acque, in selve e in monti:
 la bella ninfa mia, ch'è così sola,
 che beltà non si mira a lei sembiante.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 Quando cinto di raggi il capo biondo
 a noi ti mostri, fugge d'ogni intorno
 la cieca notte da l'ombrosa terra:
 e s'allegrano in piani, in poggi e in boschi
 le solitarie fiere, i vaghi augelli,
 e con gli armenti, pecore e bifolchi.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 E quando 'l lampeggiar del divo lume
 a me si scopre, del mio tristo core
 si scuote intorno il tenebroso velo:
 gioiscon gli occhi miei: l'anima mia
 tutta s'allegra e seco i miei pensieri;
 e meco gode il mio cornuto armento.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 Poi come le montagne d'occidente
 ingombran la tua luce, e tu t'invii
 al tuo riposo là nei bassi liti,
 la fosca notte entro a l'oscuro manto
 involve 'l cielo, e involve gli animali,
 tenendo il mondo in tenebre sepolto.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 E come del mio sol l'amata vista
 da me si parte, al dipartir di lei
 a me in un punto ogni mia luce è tolta.
 Il giorno mio sen va verso l'occaso
 e son sepolti in tenebrosa notte
 i miei pensier, il cor, l'animo e l'alma.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 Da che tolta è dal ciel tua ardente fiamma,
 perché 'l superno chiostro intorno splenda
 di mille ardori, non però ritorna
 il giorno al mondo infin che non ritorni
 tu, la cui luce ogni altra luce asconde.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 E da ch'io de' begli occhi ho gli occhi privi
 perché da mille belle e vaghe ninfe
 cinto mi vegga, non però s'aggiorna
 dentro al mio cor fin che colei non riede,
 il cui bel lume ogni altro lume adombra.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 Qualor avvien ch'a la tua accesa face
 occhio mortal s'arrischi alzar i rai
 per ritrar forse l'alma tua figura,
 la soverchia virtù del tuo splendore
 sì l'abbarbaglia, che smarrito e vinto
 ad ogni aspetto uman si trova infermo.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 E io qualor a la mia ardente lampa
 mi riprovo d'alzar gli occhi e la mente,
 per farne poi ne i tronchi alcun disegno,
 il divo onor del rilucente oggetto
 sì mi confonde, che perduti i sensi
 non sento quel, che di me stesso io senta.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 Poi quando più 'l tuo lume s'avvicina
 al mondo nostro, occhio del mondo eterno,
 e più drizzi i tuoi raggi sopra noi,
 arde la terra, e arde ogni vivente;
 e de la sete per colli e per piani
 mancar si veggon gli alberi e l'erbette.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 E quando a me 'l mio amato sol s'appressa
 (il sol ch'è solo il sol de la mia vita)
 e fiammeggiando in me 'l suo lampo vibra,
 arde in me 'l cor, ardon miei accesi spirti,
 e 'n me s'infiamma un sì caldo disire
 ch'a me stesso mi sento venir manco.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 Tu con la tua virtù non solo allumi,
 non solo incendi quel che fuor si scorge,
 ma dove umana vista non discende,
 dentro passando, fai pregno il terreno
 di tal semenza ch'i terrestri germi
 producon d'ogni intorno e fronde e fiori,
 onde si veston le campagne e i poggi.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 E la virtù di lei non sol rischiara,
 non sol infiamma la mortal mia scorza,
 ma dove altro non passa che 'l suo sguardo,
 in me varcando, in me fa tal radice
 che poi germoglia in graziosa pianta,
 in cui fiorendo i miei gentil concetti
 fanno 'l mio col suo nome eterno adorni.
 Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

 Ma che parl'io? che fo? dormo o vaneggio?
 sì son col core al mio bel sole intento
 ch'ad alta voce ancor chiamo e richiamo,
 e pur or sommi accorto ch'è tant'alto
 sorto 'l sol del mio sol sola sembianza.

 Oh così fosse ai miei bramosi lumi
 sorto il lor sol. Tornato è 'l giorno al mondo
 non (lasso) a me, ch'a me non luce il sole,
 non s'apre il giorno a me se non si scopre
 colei, ch'è sola il sol de l'alma mia.
 Oh me infelice sovra ogni vivente!
 Sa l'universo, sanno gli elementi,
 san le ninfe e i pastor, sanno i bifolchi,
 san le fiere e gli augelli, e san le gregge
 che da tornare ha il sole e 'l giorno e quando;
 e sol io solo senza sole e senza
 alcun lume, di giorno in cieca notte
 vo brancolando: e non so quando o come
 mi ritorni a veder l'amato raggio.
 Ahi, lasso me dolente: or fosse almeno
 la notte mia tal notte, qual'è quella
 ch'al cader del suo sole al mondo sorge,
 ch'in quella dolce notte in ogni verso
 si posa in pace! Rive, prati e poggi
 valli, monti, campagne, selve e fonti
 han dolce requie, e i miseri mortali
 quetan le stanche membra e ogni affanno,
 ogni fatica, mandano in oblio.
 Ma non è tal la mia, che cieco e solo
 vo intorno errando. E non han pace o tregua
 gli occhi miei, non i piedi e non la lingua;
 no 'l pensir, no 'l desir, non i sospiri.
 E s'alcun è che turbi l'altrui pace,
 io son quel desso; che son sol colui
 che col continuo suon de' miei lamenti
 ho già stancate le campagne e i colli.
 Almo mio caro sol, sarà giammai
 ch'io ti rivegga un giorno, un giorno intero?
 Un giorno che giammai non giunga a sera,
 e gli occhi affisi in te quant'io vorrei?

 Ahi, lasso me: perché, perché non lice
 mostrar aperto il cor? perché disdetto
 m'è 'l dir ch'io t'ami, se cotanto t'amo?
 Perché disdetto a te l'amar chi t'ama?

 Cotai parole, e altre sospirando
 e lagrimando, il doloroso Mopso
 spargeva a l'aura; e io che senza scorta
 lasciata avea la greggia e tuttavia
 sentia montando il sol montar il caldo,
 lui lasciai pur dolersi: il dolce canto
 fra me stesso membrando, e 'l petto pieno
 non di minor pietà che di dolcezza.



 III

 IL FURORE

 Mopso, solo.

 Dive, ch'al suon de la dorata cetra
 dei sacro Apollo, al glorioso fonte
 fate dintorno mille dolci giri,
 premendo il verde del fiorito suolo
 liete alternando le vezzose piante
 non senza l'armonia d'eterni versi:
 quella, ch'è Donna de le Donne, e Donna
 è del mio cor, o sante Donne, o Dive,
 vuoi pur ch'io canti: e vuol che 'l canto s'erga
 sopra ogni bosco. Adunque perchè 'l canto
 sia canto degno di Donna sì cara
 movete insieme e con voi mova Apollo:
 mova tutto Elicona e si raccolga
 tutto lo spirto vostro entro al mio petto.

 Oh de la mente mia lucido specchio,
 alma gentil fra le belle alme bella,
 in cui fiso mirando d'ora in ora,
 si fan dentr'al mio cor novi concetti,
 da partorir scrivendo in nove carte;
 lietamente ricevi il novo frutto,
 che prodotto ha 'l germoglìo del tuo seme;
 e mentre io fo sonar la mia zampogna
 al furor del tuo Mopso porgi orecchie,
 e nel furor di Mopso al furor mio.

 Salita era la notte al sommo cielo
 e rilucea nel mezzo del suo cerchio
 la sorella di Febo, il bianco volto
 tutta splendente del fraterno lume.
 Taceva il mondo, in sè pe' lor vestigi
 tacite si volgean l'eterne spere;
 taceano i venti e 'l mar; tacea la terra
 e con lei piani e colli, e monti, e valli.
 Sol nel silenzio d'ogni alma vivente
 non tacea Mopso: e non taceva amore
 dentro al suo petto. Ei per deserte piagge
 da furor trasportato, solo e vago,
 errava, intorno pur con gli occhi fissi
 ne la cornuta diva. E 'n quello stato
 disse de l'amor suo cose sì nove,
 che ne suonano ancor le selve e gli antri.

 MOPSO. Dove, dicea, mi scorge or la tua luce,
 candida luna, per solinghe strade?
 Tirar mi sento ove per gli erti gioghi
 rara di piede umano orma si scorge.
 Qual novo aspetto e qual novo desire
 verdeggia nel mio cor? La folta selva
 de l'odorate, verdi, ombrose piante,
 tutto m'empie d'orror e di diletto.
 E quel dolce ruscel, che mormorando
 fugge tra l'erbe e i flori, a sè mi chiama.
 Ma donde viene il canto? E donde il suono
 che sì dolce lusinga l'aere intorno?
 E cosi è dolce, che simil dolcezza
 non porge a me 'l belar de le mie gregge,
 nè sì soave è 'l suon de le mie canne.

 Or ecco là che giovinette donne
 cinte le terapie di fronduti rami
 fan la nova armonia; ina che vegg'io?
 Non è tra lor, non è colei ìa mia?
 Ahi! m'è tolta la voce. Or chi l'ha scorta
 di mezza notte senza fida scorta
 da le rive del Po fra questi boschi?
 E che fa qui l'altero giovinetto
 c'ha la lira dorata e d'or le chiome
 e d'ogni vello ancor le guancie ha nude:
 misero: adunque? Adunque in cotal guisa?
 Or dove sono? E che fo? Vegghio o dormo?
 Non so ove sia: non so se vegghi o dorma.
 E s'io vegghio, è ella dessa o altra? Ahi, lasso,
 non conosco io la ninfa mia? La voce
 piena di melodia, gli ardenti lumi,
 il vago aspetto, il grazioso viso:
 gli atti soavi, i movimenti alteri:
 l'andar, lo star: la mano, i piedi, i panni,
 far la dovrian pur conta a gli occhi miei.
 E s'altro a me non la facesse conta,
 si la farìa quell'amoroso orrore
 ch'a l'apparir di lei m'ha l'alma ingombra,
 e quel desio, che qui condotto m'have,
 u' condur non poteami altro desìo.
 Ma ch'è quel ch'odo, che da l'altre l'odo
 chiamar sorella e nominar Talia?
 Questo bosco di lauri e quella fonte:
 le donne coronate: il bel concento:
 l'aspetto più ch'umano? Or una, e due,
 tre, quattro, cinque, sei, sette, otto e nove,
 il numero conviensi... questo è 'l giogo
 de l'alme Muse: e queste son le Muse.
 E una n'è la mia. È la mia ninfa
 dunque una Musa, o son le Muse ninfe?
 O mia, come dir debbo, alma mia Diva,
 con quanto amor, con quanto studio ed arte,
 fra mortali discesa dentro a l'alma
 m'accendesti l'ardor; presso al cui raggio
 movendo i passi, a questo santo giogo
 mi trovo aggiunto. O mano, amata mano,
 tu mi tien, tu mi guida: o caro dono,
 bramato don, così ne foss'io degno.
 Tu con la tua sorella le mie terapie
 fai verdeggiar de l'onorata fronde
 perch'ogni mio pensier tutto verdeggia.

 O sacri, vivi e lucidi cristalli,
 onde s'inaffian così rare piante,
 qual radice ha sentito il vostro umore
 c'ha virtù di produr pianta sì ferma
 che non le nuoce il più cocente sole:
 non la molesta grandine nè pioggia:
 non la crolla il furor di Borea o d'Austro,
 e non la tocca il folgorar di Giove?
 Qual radice ha sentito il vostro umore?
 Ne la sua pianta il verde eterno vive;
 vivono eterni i fior, vivono i frutti:
 nè muta vista per mutar stagione.
 Beato, eterno umor che liete e chiare
 fai le piante, le fronde, i frutti e i fiori;
 i' pur spengo di te mia lunga sete:
 e 'n te s'attuffan mie bramose labbra.
 O che veggio? O che intendo? Il cieco velo
 tolt'è da gli occhi miei: m'è fatto amico
 il sacro coro, amico il santo Apollo.
 Pur or conosco io te fedel compagna,
 fedel mia guida e mia fedel maestra;
 Erato bella. Tu fin da la culla
 mi fosti a lato; tu la tua sorella
 fra le genti mortali in forma umana
 mi scorgesti a mirar. Tu mi dimostri
 com'io lei segua, cui più sempre amando
 l'alma mia più verdeggia e più s'infiora.

 Ma che novo desir mi punge il core
 di levarmi da terra? Oh, ch'i' mi sento
 mutar di fuori e farmi un bianco augello:
 le man, gli omeri, il capo, il collo, il petto
 tutti si veston di novelle piume;
 già comincio a cantar, già batto l'ali....
 non mi lasciar Talia, levati a volo;..
 Erato spiega al ciel l'aurate penne...
 date forza al mio ardir, che senza voi
 ogni mio sforzo alfin sarebbe invano.
 Già lasciato ho 'l terreno; altero e lieve
 sopra i nuvoli m'alzo e sopra i venti:
 già mi si fa minor e terra e mare.
 Alma sorella del compagno e Dio
 de la mia Dea benigna, a te raccogli
 colui, cui la tua luce ha mostro il calle
 di gir al monte ove la via s'impara,
 che l'alme altrui conduce a più bel monte.

 I' veggio aperte le dorate porte
 del gran gìardin, ch'i muri ha di zaffiro;
 qui n'accoglie Diana; e qui n'envia
 per la verdura del suo bel verziero;
 qui la fiorita e verde primavera
 move d'intorno, e va pascendo il verde
 del santo umor de la rugiada eterna;
 qui l'alma Clori e 'l suo diletto sposo
 spargendo a l'aere ognor novelli odori
 van dipingendo il variato suolo;
 qui non arde la state e qui non sfronda
 l'autunno i rami e non gli imbianca il verno;
 qui vive il verde eterno; eterni rivi
 di liquidi smeraldi i verdi prati
 van compartendo; al mormorar de l'acque,
 al soave spirar de le dolci aure,
 al tremolar de i verdeggianti rami,
 suonano in dolci e 'n dilettosi accenti
 mille amorosi eterni rosignoli.
 Qui s'odon risonar cetre e zampogne;
 immortai cetre e immortai zampogne;
 oh dolce vista, ed oh soavi note;
 oh tra 'l veder e udir dolci pensieri;
 qui, santissime Muse: qui Talia,
 qui, qui sia, Diva, eterno il nostro albergo.

 Così diceva il forsennato Mopso:
 e così detto, muto e sbigottito
 stette buon spazio; e 'n sé fatto ritorno
 e raccolto lo spirto, alti sospiri
 dal cor traendo, intorno al molle tronco
 d'un tenero olmo tai parole scrisse:

 Udite selve, udite Dei silvestri,
 odan le ninfe, oda ogni pastore.
 Ho veduto Elicona e 'l sacro bosco;
 ho veduto 'l licor ch'i nomi avviva;
 veduto ho Febo e le dotte sorelle,
 e Tirrenia fra loro; una di loro
 è la bella Tirrenia: ella m'ha tratto
 al sacro bosco, e dal bosco a la fonte,
 e da la fonte al cielo: ella è colei
 che m'arde 'l cor; ella è colei ch'io canto;
 ella è il mio sole; ella è la mia Talia.
 Ed io son Mopso. Pianta eterna vivi:
 e i nomi nostri eternamente serva.



 IV.

 TALIA

 Mopso, solo.

 Già risalito sopra l'orizzonte
 il pianeta d'amor dal terzo cielo
 fiammeggiando spargea l'aer sereno,
 il tempestoso mare, il duro suolo
 di chiari raggi e di virtute ardente:
 e destando le selve e le campagne,
 richiamava pastor, gregge e bifolchi
 a le zampogne, a i paschi e a gli aratri.
 Quando Mopso d'ardor l'anima acceso,
 posto a seder in una erbosa riva,
 al dolce mormorio di lucid'onde
 in sè raccolto, immobile e pensoso
 si stette alquanto; indi a sue dolci note
 rispondendo gli augei, le selve e l'acque,
 ruppe 'l silenzio in così nuovi accenti,
 che n'han fatto conserva i Dei silvestri,
 per dar lor vita in più ch'in una etade.

 Or qual fosse 'l suo canto, a lei che desta
 ti tiene ognor a gli amorosi canti
 fa che 'l ritorni a dir rozza zampogna;
 e sia tale il tuo suon, che degno sia
 de materia maggior che di zampogne.
 MOPSO. Alme sorelle, che d'eterno grido
 rendete onor a chi col cor v'onora,
 se mai liete porgeste alcuna aita
 al suon de gli amorosi miei sospiri,
 or, che d'amor cantando è 'l mio pensiero
 cantar voi insieme (che di voi cantando
 canto 'l mio amor) a l'incerate canne
 ispirate sì dolce e chiaro suono,
 che sia 'l mio amor co'l vostri nomi eterno.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 E tu, mio santo e mio soave ardore,
 dotta e bella Talia, mentr'io m'affanno
 per voler dir di te, ne l'alta impresa
 porgi soccorso a la mia fioca voce:
 dammi ardir, dammi forza; alza 'l mio ingegno
 e con la cara mano un novo ramo
 fresco, verde, odorato, or ora colto
 dal sacro monte a la mia fronte avvolgi.
 Movi Talia, movete sante Dive.
 Movete o sante Dive a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Sorge in Boezia e non molto lontano
 dal gran Parnaso un onorato giogo
 che d'altezza e d'onor con lui contende;
 quest'è 'l santo Elicona, in cui verdeggia
 l'eterna selva sacra al sacro Apollo,
 d'uno e d'altro valor degna corona.
 Qui si monta per luoghi alpestri ed ermi;
 raro sentier v'appar, rari vestigi;
 nè v'ascende uom mortal, cui 'l ciel non chiama.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Quest'è quel poggio, che fra gli altri poggi
 è de le Muse il più diletto poggio:
 qui 'l grande Apollo ispira entro a' lor petti
 quella virtù ch'a lui 'l gran padre ispira;
 ed elle l'alme elette a i Dei più care,
 chiamano al verde de l'amate piante;
 e chiamanle al licor del chiaro fonte;
 chiamanle al chiaro fonte d'Ippocrene,
 eterno onor del sangue di Medusa.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Scritto è nel sasso antico, onde si versa
 la dolce vena, in ben limati versi,
 ch'un giovinetto che di pioggia d'oro
 fu conceputo, alzato un giorno a volo
 uccise lei, che con l'orribil vista
 rivolgea l'uomo in insensibil marmo:
 e che del sangue suo, mille veleni
 fur sparsi in terra; e fra i diversi mostri
 un'alato destrier subito apparve.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Questi nitrendo e dibattendo l'ale
 si levò in aere, e dopo un lungo corso
 pervenuto al bel giogo ond'io favello,
 volando tuttavia, nel duro masso
 percosse un'unghia, e quei ratto s'aperse
 larghi versando e liquidi cristalli.
 Apollo il vide, e 'l vider seco insieme
 tutte le nove Muse, ed egli, ed elle,
 fede ne fanno a chi con lor ragiona.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 E quest'è 'l fonte in cui, cui 'l ciel non nega
 di poter pur bagnar le somme labbra,
 cantar si sente al par de i bianchi cigni.
 Qui conducon le Dive a cui interdetto
 non è 'l bel monte, e 'ncoronati e molli
 del santo rio gli rendono a' mortali,
 perchè rendano a ogniun degna mercede
 de le fatiche lor, de le bell'opre
 qual ornando di lauri e qual di mirti.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Quinci discesi quegli spirti eletti
 sopra tutt'altri, con eterne lode
 or del fier Marte, or del soave Amore,
 cantano il sudor d'un, d'altro i sospiri.
 E per memoria de l'amato albergo
 aman le ninfe i poggi, i fonti e i boschi.
 Ed è ragion, ch'ancor quelle chiare alme,
 in rimembranza del lor nascimento,
 godon di luoghi solitarii ed erti.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Fra le selve Pierie il Dio dei Dei,
 quel ch'ad un cenno il ciel move e governa,
 d'amor acceso, in forma di pastore
 con la bella Nemosine si giacque.
 Era costei la più vezzosa ninfa,
 ch'in quella o in altra età, ninfe e silvani,
 tenesse al suon de le sue dolci note
 dolce cantando le memorie antiche,
 e gli occhi avea stellanti e d'or le chiome.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Giacquesi con lei Giove, e tante notti
 giacque con lei, quante del santo coro
 son le dotte sorelle. E poi che Febo
 nove volte ebbe visto l'auree corna
 rifarsi al lume suo rotondo specchio,
 tante chiamò Lucina al suo soccorso
 la bella ninfa, e d'altrettanti parti
 madre divenne. O ben felice madre
 il mondo adorno ha il tuo fecondo ventre.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Venute in luce le felici piante,
 de' cui be' fiori e de' cui dolci frutti
 dovea goder il cielo e 'l nostro mondo,
 il sommo padre di sì bella stirpe
 tutto gioioso i teneretti germi
 degni intendendo di più degno suolo,
 che di suolo terren, fece pensiero
 di voler trapiantar la nova selva
 ne le splendenti sue felici piaggie.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 De' cieli d'uno in uno il re de' cieli
 donò loro il governo ad una ad una;
 e d'una in una a loro i nomi impose.
 Quella cui diede il cerchio in cui si mira
 errar d'intorno con cangiati aspetti,
 la dea de la cornuta e bianca fronte,
 fu la bella Talia, la cui virtute
 fa verdeggiando germogliar gl'ingegni
 di verdura immortal di fiori eterni.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Toccò a Mercurio seguitar l'impero
 de la placida Euterpe, a la cui voce
 s'empion l'alme di gioia e di diletto.
 S'accompagnò con l'alma dea di Cipri
 Erato bella, che ne l'alme inesta
 quel caro germe ch'è chiamato Amore;
 e Melpomene ascese al quarto lume,
 e la spera di lui tempra e rivolve
 col canto suo, ch'è pien d'ogni dolcezza.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 L'ardente spirto del superbo Marte
 ogni orgoglio deposto, non rifiuta
 di dar orecchie a la famosa Clio.
 A Tersicore diede il re superno
 che de la stella sua fosse compagna,
 tutto invaghito di sua allegra vista;
 e di Polinnia gode il padre antico
 notando l'armonia del vario suono
 e la memoria de le cose belle.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Urania su volando altera salse
 fra mille lumi, ed or in or s'aggira
 lieta del suo bel ciel cantando intorno.
 Calliope non ebbe proprio nido
 dal sommo padre: ei volle ch'in ciascuna,
 de l'altrui stanze fosse la sua stanza:
 e le buone sorelle a la sorella
 congiunte in dolce amor, in dolci accenti
 cantando insieme fan dolce armonia.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Signoreggiano in cielo, e 'n su la terra
 han signoria quell'anime celesti:
 e ciascuna di lor da la sua spera,
 Calliope da tutte il lor valore
 spargon quaggiù ne i più chiari intelletti.
 E qual del divo spirto ha l'alma ingombra
 a lui s'apre Elicona: a lui le chiome
 cingono i lauri: a lui non si disdice
 spenger la sete al fonte d'Aganippe.
 Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
 cinte le tempie d'odorati allori.

 Ma che novo furor m'ha 'l petto ingombro
 di voler col mio calamo palustre
 sonar di lor, ch'a i sempiterni Divi
 rotando tuttavia l'eterne spere,
 de le lor voci fan dolce concento?
 Mercè dive, mercè del novo ardire
 non vi chiamai nimico, e non mi vanto
 di cantar vosco a prova. Anzi 'l desio
 onde 'l vostro valor m'ha l'alma accesa
 mi mosse a ragionar de i vostri onori.
 Tornate, o sante Dive, a i vostri allori.

 Tornate Dive; tornin l'altre e meco
 rimanga la dolcissima Talia;
 rimanti, o Diva, con colui che sempre
 teco è col core. O Musa a le mie rime
 basta la tua virtù. Tu 'l mio Elicona,
 tu 'l mio Parnaso se': tu se' 'l mio Apollo:
 tu con l'ardor de' begli occhi sereni
 accendi entro 'l mio cor sì chiaro foco,
 che l'invidia del tempo in alcun tempo
 non potrà spegner mai la nostra luce.
 Tu con la soavissima favella,
 col dolce suon, con le celesti note
 e con la leggiadria del chiaro stile,
 me togliendo a me stesso, a dir m'invii
 cose, ch'i' spero, che fra questi boschi
 si serveranno ancor dopo mill'anni.
 E trovando Talia per mille tronchi
 scritto per la mia man, trovando Mopso
 scritto per la man tua, n'avranno ancora
 diletto e invidia la futura gente.

 O che parlo? Il tuo aspetto a dir m'ispira
 quantunque io parlo; tu mia lingua movi,
 tu mi porgi i concetti e le parole.
 O mia musa, o mio amor. E qual fu mai
 più glorioso amor che la mia Musa
 è 'l mio amor, e 'l mi' amor è la mia musa?
 Dolce amor, dolce musa: e non vaneggio;
 non è 'l mio sogno; no, che viva e vera
 ti veggio alma mia diva; e tal ti scorgo
 qual ti scorgono e Febo e tue sorelle
 a l'onde di Permesso; e qual ti scorge
 la sorella di Febo entro al suo giro.

 Quant'è la gioia mia? Con voi ragiono
 riposti orrori e solitaria riva:
 e prego che fra voi si stian sepolte
 le mie parole: e voi piacevoli aure
 fermate l'ali e eco non risponda:
 non risponda eco a me, che la sua doglia
 mal si conface al mio gioioso stato.
 Chieggio silenzio, acciochè fuor non s'oda
 per la mia bocca l'alta mia ventura,
 che d'invidia potria colmare altrui.
 Quella, ch'un tempo per l'erbose sponde
 de l'ampio laco de l'antica Manto
 fece tenor cantando al gran Menalca:
 quella, quella or risponde al vostro Mopso.

 Volgi a me i lumi o diva, ch'in que' lumi
 godo del ben del ciel: la lingua snoda
 dolce mio santo amore; da quella lingua
 sente 'l mio cor dolcezza più ch'umana.
 O dolce il veder mio s'eternamente
 gli occhi affisassi dentro a tuoi begl'occhi,
 e tu gli occhi affisassi a gl'occhi miei:
 o dolce udir, se 'l suon dolce e soave
 sonasse eterno dentro a le mie orecchie,
 dentro al cor penetrando, e dentr'a l'alma.
 O dolci i miei pensier, se al mio desire
 s'unisse il tuo desir con tanto affetto
 che fosse una la mia con la tua voglia.

 O mia Diva, o mio amor, se del tuo amore
 e se del tuo favor tanto cortese
 sarai a l'alma mia, che le mie rime
 s'ergan sopra l'invidia, e i miei pensieri
 sian pensier di letizia, in su la foce
 del Formion, là dove il bel Sermino
 quinci le dolci e quindi le salse onde
 bagnan d'intorno, un venerabil tempio
 sorgerà al nome tuo; quivi i pastori
 soneran sempre a te cetre e zampogne:
 e di fior sempre, e sempre di verdura
 si trecceranno a te ghirlande fresche.
 E da i colli e da l'onde, i Dei silvestri
 e le ninfe e i tritoni, incoronati
 di liete frondi, a te festosi giri
 faran dolce iterando il tuo bel nome:
 e fra gli altri la bella, la più bella
 ninfa ch'abbia tutt'Adria in alcun scoglio
 Egida bella l'onorate tempie
 cinta di rami di felice oliva,
 Talia cantando, e 'l nome di Talia
 risonando d'intorno, e poggi e valli,
 sopra i sacrati altari in fochi eterni
 spargerà lieta a te con larga mano
 in sacrificio gli odorati incensi.
 Te col divo splender de i lumi santi,
 col dolce riso e con la chiara voce,
 ferma o Diva, e col cuore il mio bel voto.



 V.

 LA LONTANANZA

 Mopso, solo.

 È già gran tempo o Muse il mio suggetto
 l'amor di Mopso, e voi beate Dive
 sete 'l suo amore. Or il dolente Mopso
 dal dolce amato nido e dal suo bene
 fatto lontan, va empiendo selve e campi
 di dolor, di sospiri e di querele.
 Contan le ninfe che fra gli altri un giorno
 lungo la riva, su verso le fonti
 del vago Po salendo, a tali accenti,
 a sì pietosi, a sì dogliosi accenti
 allargò 'l fren, facendo in ogni verso
 gemer le sponde al nome di Talia;
 che le triste sorelle di Fetonte
 obliando 'l lor duol, al suo dolore
 porsero orecchie, e vinte di pietate
 largaro il corso a non usati pianti.
 Or qual fosse il suo pianto o santo coro
 ditelo a' boschi nostri, e non vi annoi
 di por le dotte e dilicate labbra
 a le mal culte mie silvestre canne,
 E tu mio dolce duol, mia amara gioia,
 mio solo eterno amor, mia prima Musa,
 mentr'io cantando lacrimo e sospiro
 con pietate raccogli il triste canto.
 Incominciate o Dee: le selve e gli antri
 daran risposta al lacrimabil suono.

 MOPSO. Lasso; quest'è ben dura dipartita;
 dura, crudel, amara dipartita,
 via più ch'assenzio amara e più che morte.
 Ed è ragion, ch'estremamente amaro
 mi sia 'l partir da lei che m'è più cara
 che la zampogna mia, più che l'armento:
 più che la vita cara e più che l'alma.
 Ahi, ahi! protervo amore di te mi doglio,
 protervo, iniquo e dispietato amore.
 Tu con fredde paure in van sospetti
 mi tenesti gran tempo, mentre ch'io
 lei per Tirrenia e per ninfa del Tebro
 amai languendo, ardendo e lacrimando.
 Poi che 'l favor de' più benigni divi
 salir mi fece il glorioso monte,
 e mi fece veder fra i sacri allori
 l'alto mio santo e dolce amore; e poi
 che tolto via il furor di gelosia
 alti e dolci pensier battendo l'ali
 m'inalzavano al cielo altero e lieto;
 hai tronco 'l volo a' miei gentil desiri.

 Ahi lasso me dolente, e qual furore
 mi conduce ad oprar la rabbia e i denti,
 contro il benigno mio soave Iddio?
 Mercè Signor, dolce Signor perdona
 al soverchio martir che mi trasporta.
 Tu la mia scorta se', tu 'l mio maestro;
 tu se' 'l mio onor e tu se' la mia palma;
 tu con la face tua m'hai mostro il calle
 d'ir al bel monte: tu con l'auree penne
 impenni i miei pensier; tu nel mio petto
 scolpita hai la dolcissima Talia.

 Per tante grazie a te di sacro sangue
 spargerei d'or in or i santi altari,
 a te arderei gl'interi sacrifici,
 se non che tu (qual'è 'l tuo cor pietoso)
 di crudeltà nimico, il sangue aborri.
 Ma di quel, checchesia, che non rifiuti,
 di fior, di lode, e d'odorati fumi,
 la mia man, la mia lingua e la mia mente
 a te non sieno in alcun tempo avare.

 Da dolermi ho di mia crudel fortuna,
 anzi di lui, che fa la mia fortuna.
 Di te m'ho da doler, di te Tirinto,
 crudel Tirinto, or se mai 'l petto caldo
 ti sentisti d'amor: se punto amico
 se' de le dotte Muse, il petto caldo
 pur ti senti talor, e eterno amico
 se' de l'amate Muse, ahi crudo, e come
 puoi scurar dal suo amor l'acceso amante?
 Come tòrre a la Musa il suo poeta?
 Ben ti dovria Tirinto esser a grado
 d'udir al suon di Mopso e di Talia
 risponder Eco: e l'una e l'altra sponda
 del tuo bel fiume: il tuo bel fiume e Eco
 ti pon far fede che eia le pendici
 de l'alto giogo, onde 'l Dio del tuo fiume
 da l'ampio vaso versa i larghi rivi
 insin là dove, per diverse foci,
 si scorga in Adria, in tutte le sue rive
 non ha 'l più santo ardor, nè 'l più gentile.
 E tu cerchi d'opporti a tale amore.
 O Tirinto crudel, se non ti move
 il mio dolore e 'l mio cocente affetto,
 di lei ti mova il grazioso sguardo,
 ch'acceso di desir tacendo grida,
 e per pietà pregando a te s'inchina.
 Movati 'l suon di que' pietosi versi
 in ch'ella amaramente sospirando
 riprega te per l'amorosa face,
 che 'l suo diletto Mopso a lei ritorni;
 sia pietoso Tirinto e sia sicuro
 che qual pastor, qual ninfa e qual bifolco
 non ha pietade a chi d'amor sospira,
 non gli ha pietade amor, quand'ei sospira.

 Misero me, i' mi dolgo, e tuttavia
 dilungando mi vo dal mio desio,
 e per molto desio piango e languisco;
 e fo col pianto mio col mio languire
 pianger gli sterpi e fo pietosi i sassi.
 Fera ventura, veramente fera,
 che tu diva gentile e 'l tuo fedele
 esser debbiate eternamente insieme
 fermo suggetto a dolorose note.

 Or il vago pensier va rimembrando
 quelle parole tue; quelle parole,
 quelle, quelle, quell'ultime parole
 che mi sterparo il cor, mi svelser l'alma.
 Ben è ragion ch'eternamente t'ami,
 e se verace amore, se ferma fede
 merta cambio d'amor, ragion è ancora
 che tu, mia vita, eternamente m'ami.

 Non sia mai luogo o tempo che disgiunga
 da me 'l tuo amor, che mai per luogo o tempo
 non sarà l'amor mio dal tuo disgiunto;
 meco sia 'l tuo pensier, che 'l mio pensiero
 sempre è con te. Con me sia 'l tuo desire,
 che teco è 'l mio desir: sia l'alma tua
 sempre con me, che teco è l'alma mia.
 Così ci ricongiunga un giorno amore;
 e ricongiunga con felice sorte
 i pensieri, i desiri e l'alme nostre.

 Lasso che 'l ragionar il pensier segue
 e ragionando ognor cresce la voglia,
 e crescendo la voglia il duol sormonta.
 Vago fiume, alte rive, ombrose piante,
 passò mai quinci, o qui mai si ritenne
 pastor alcun a cui sì tristi lai,
 sì cocenti sospir, sì largo pianto
 facesser fede del dolor suo interno?
 Ma degno è ben che mia lingua si dolga,
 e che sospiri il core e piangan gli occhi.
 È tolto agli occhi il sol de gli occhi santi;
 il sol, ch'è solo il sol de gli occhi miei,
 il sol, ch'oltre per gli occhi al cor passando
 tutto l'empiea di vivi ardenti spirti;
 di spirti che mia lingua a ta' suggetti
 movea sovente, che per avventura
 non son suggetti da ciascuna lingua.
 Or sendo privo di sì altero oggetto
 ragion è ben che 'l mio dolor sia solo;
 e che sia la mia lingua, il cor e gli occhi,
 lingua fioca, cor tristo e occhi molli.

 I' vo dolente, e pur convien ch'io vada;
 misero Mopso ov'è la tua Talia?
 Cara Talia, ov'è il tuo fido Mopso?
 O duro fato, o cruda dipartita.

 Lasso, che importa a poverel pastore
 quel che facciano i ricchi, empii tiranni?
 Che tocca a me cercar l'armate squadre?
 Inique stelle: veramente i cieli
 contra me son giurati; e 'l fiero Marte
 ha tant'arme commosse e tanti sdegni
 per dipartirmi dal maggior mio bene.

 O fortunati, a cui 'l terren natìo
 è fermo seggio e certa sepoltura:
 fortunati bifolchi voi se 'l giorno
 i buoi giungete e col gravoso aratro
 sottosopra voltate i duri campi,
 non v'è negato almen tornar la sera
 a le capanne vostre, a i dolci alberghi,
 a le dilette vostre compagnie.
 Voi non arate il periglioso suolo
 del tempestoso mar: voi gli alti gioghi
 non varcate giammai de l'orrid'alpi;
 voi non bevete le straniere fonti.
 È 'l lungo cammin vostro a la cittade,
 a la città, al mercato; e quindi il sole
 che v'ha condotti ancor vi riconduce.
 Voi fortunati e sfortunato Mopso:
 ei da quel dì ch'al sol pria gli occhi aperse
 non ha potuto ancor pur una volta
 dir: qui sarà domane il mio soggiorno.
 Ma da la patria ad estrani paesi
 dal Tebro a l'Istro e dal Po alla Garonna,
 d'oltre il Carnaio a l'ultimo Oceano,
 e dal Vesuvio a gli alti Pirenei
 errando ognor, è stato a tutte l'ore
 perpetuo strale a l'arco di fortuna.

 Misero Mopso! O patria, o patria cara;
 o grande Antiniano, o bel Sermino,
 o vago Formione, o scoglio amato
 quando sarà ch'io vi rivegga e dica:
 quel poco omai di vita che m'avanza
 mi vivrò pur tra voi, ch'è quel ch'io bramo?
 Il grande Atiniano, il bel Sermino
 il vago Formion, l'amato scoglio
 a me è Talia. Talia mi renda 'l cielo
 ch'è Talia la mia patria e 'l mio riposo.



 VI.

 LA SCONCIATURA

 Mopso, solo.

 Torniamo, o Muse, ai pianti e ai sospiri:
 nostro soggetto or son sospiri e pianti.
 Il vostro Mopso si consuma e strugge.
 Or mentre io ch'io con lui mi lagno e ploro
 seguite o dive le dolenti note.

 FEDEL mio, se 'l mio Mopso men fedele
 fosse in amor, i' vi so dir per vero
 che fora la sua vita men dolente;
 ma suo costante amor sua ferma fede
 di vento di dolor, d'amaro umore
 gli tien ognor il petto e gli occhi pregni;
 e voi il sapete pur, ch'alcuna volta
 gli occhi affissate in lui tutto pietoso.
 Or se la vista del suo aspetto solo
 può pietade inestar ne gli altrui cori,
 che dovran far i dolorosi lai?
 Il miserel ad or ad or s'invola
 al vulgo e ai pastori; e in qualche bosco
 in qualche antro riposto si raccoglie;
 quivi s'asside, e quivi s'accompagna
 or con un tronco antico, or con un sasso:
 e di sé privo, col pensier dipigne
 il dolce amato viso; in quel ritratto
 gli occhi e l'animo affisa: in quel si specchia;
 con quel ragiona; e quel tanto ha di pace
 quanto 'l ritiene il dilettoso inganno.
 Poi ch'in sé è ritornato, il duolo immenso
 non capendo ne l'alma, si disgombra
 per lo petto, per gli occhi e per la lingua
 in spirti accesi, in lacrimosi rivi,
 in fiochi, rotti ed angosciosi accenti.

 I' pascea un dì 'l mio armento per le piagge
 del bel Tesin: e così passo passo
 per la sua riva errando, il piè mi scorse
 là ov'io sentì dolersi quel meschino
 con le fere, con l'acque e con gli sterpi.
 E quanto con la mano ir seguitando
 potei 'l suo dir, le triste sue querele
 diedi a serbar ad una antiqua quercia.
 Or, a voi di ridirle è 'l mio pensiero:
 e voi cui talor visto ho 'l petto caldo
 di caldo amore, e che di vera fede
 portate il nome, con pietate udite
 gli acri lamenti del fedele amante.

 MOPSO. O mia cara Talia, m'ha dunque il cielo
 disposto ad amarti perch'amando i' pera?
 Ben poss'io dir che quanto gira il sole
 non ha la nostra età più ardente foco:
 non più gentil, non più lodevol foco
 che sia 'l mio foco, e posso dir ancora
 che non ha 'l mondo e non ha 'l secol nostro
 alcun del mio più sventurato amore.

 Bella, vaga, gentil, dolce Talia,
 vaga e dolce Talia, ma non men cruda
 che vaga e bella e che dolce e gentile:
 perché crudel? Perché se tante voci
 e se tanti sospir, se tanti pianti
 ti mando d'or in or giù per quest'acque,
 alcun tuo accento a me non mai ritorna?
 Perché s'ami 'l tuo Mopso, a le sue pene
 non hai pietate? E se pietà ti move,
 che non porgi al dolente alcun conforto?

 Misero Mopso, e sarà dunque il vero
 quel, che per tutti i boschi ognor ribomba
 del breve amor, de' mal fermi pensieri
 del sesso feminil? Ahi! dunque lasso
 avrò senza 'l suo amor da stare in vita?
 Non sarà il ver, sebbene e pastorelle
 e Ninfe, e Driadi e Naiacli, e Napee
 son di mobil voler; però non voglio
 dir che sia 'l suo così mutabil core.
 Non è la mia non è cosa mortale,
 non Naiada, non Driada od altra Ninfa;
 ma de l'eccelse eterne abitatrici
 de le spere celesti, una di loro
 è la mia diva: e col suo divo spirto
 nel cor mi spira l'alte cose belle.

 O pur non sia fallace il creder mio.
 Or mi sovvien, ch'ancor de l'alte dive
 son mal stabili i cori. E quante volte
 mutò voglia e amor la dea di Cipri,
 la dea del terzo ciel? Di lei mi taccio.
 Ma la bianca, la fredda e casta luna
 come fu fida, lasso, al fido amante?
 Il sanno gli alti boschi, ch'alcun tempo
 vider Pan lieto e tristo Endimione.
 Mal fida luna, avara luna; e troppo
 grande argomento de l'incerta fede
 de le mutabil, de l'avare voglie
 del femineo desir. Chi mi conforta
 in sì novo dolor? Su per le rive
 del vago Po non mancano i pastori:
 non mancano i leggiadri e bei pastori,
 non i ricchi pastor di grassi armenti.

 Ma non di gregge mai, non mai d'armenti
 vidi vago 'l suo cor. Gli umil disiri
 sdegna quell'alma sopra ogni alma altera.
 Non per fior giovenil, non per tesoro
 apron le sante Dive il santo monte.
 Nè per fior giovenil, nè per tesoro
 dee la mia Diva altrui largare il petto.
 Caro a Talia di Mopso è il dolce canto
 pien d'alti spirti e di gentili ardori.

 Or non ha 'l Po di più soavi note?
 Di più gentil, di più leggiadri spirti?
 Dolente me: di quanti or mi sovviene
 chiari pastor ch'alberghin per le sponde
 dov'alberga 'l mio ben, tante punture
 mi sento al cor. Ahi! ch'ella non rivolga
 gli occhi altrove e l'orecchie e i pensieri.

 Chiari pastor, deh! no, deh! no per Dio,
 tant'oltraggio al buon Mopso. O Musa, o Diva:
 o mia Musa, o mia Diva, il tuo buon Mopso,
 il tuo devoto il tuo costante Mopso,
 il tuo sincero il tuo verace amante,
 il tuo fedel pastor il tuo poeta,
 vive egli, o Diva, caro e solo albergo
 de la sua vita? Ei vive, s'in te vive
 la memoria di lui, s'a l'alma sua
 dal petto amato non hai dato il bando.

 Ahi, qual fora 'l mio stato o triste core,
 (tolga Iddio tale augurio) quale stato
 fora 'l mio s'a la mia dolce Talia
 fosse a grado d'udir ch'altri che Mopso,
 mia le dicesse. O pria fra questi boschi
 aspra, selvaggia fera, e l'unghie, e i denti
 contro me adopre; l'affamate voglie
 di mie tremanti membra e del mio sangue
 sbramando fiera e pia, finisca a un punto
 il mio amor, il mio duolo e la mia vita.



 VII.

 TIRRENIA

 Cosa propria d'amante è, Nobilissima signora mia, desiderare di esser
 sempre e interamente unito con la persona amata, e di qui è che oltra
 il desiderio il quale io ho che l'anima mia sia con la vostra
 indissolubilmente congiunta, bramo ancora che i nomi nostri insieme
 siano eternamente letti e che insieme vivano chiari e immortali. E per
 tanto, oltra le molte altre rime alle quali l'amor vostro m'è stato
 Elicona e voi stata mi sete Musa favorevole, mi è novamente venuto
 fatta una mia composizione per avventura più affettuosa che
 artificiosa, nella quale ingegnato mi sono di far un disegno di voi
 più particolare che altro il quale insino ad ora io abbia visto che
 sia stato fatto da altrui. E se io non ho così dotta mano che di voi
 possa fare un vero ritratto, penso avervi almeno ombreggiata in
 maniera che siccome dalle ombre delle bellezze superiori gli animi
 nostri di grado in grado al disio della vera bellezza sono tirati,
 così da questa ombra da me fatta di voi, i più gentili spiriti
 potranno salire alla considerazione di quel vero ch'è in voi; or quale
 che ella si sia, tale la vi mando nè altro vi dirò se non che se un
 altra figura poteste vedere con gli occhi corporali la quale io porto
 già gran tempo nell'animo e di quella farne comparazione con voi
 stessa, sono securo che voi medesima non sapreste discernere se in voi
 o in me sia più vera l'imagine di quella forma ab eterno conceputa
 nella mente di Dio, alla cui simiglianza vi fabricò natura quando ella
 volse

     Mostrar quaggiù quanto lassù potea.




 Interlocutori.- DAMETA e TIRSE


 L'erboso prato e i verdeggianti allori,
 l'aura soave e 'l bel rivo corrente,
 m'invitan seco a far lieto soggiorno
 e ragionar del mio soave foco.
 Muse, Muse, mentr'io di lei favello,
 avvolgetemi alcun di questi rami
 intorno al crine, e non mi siate avare
 del favor vostro: i' canto il vostro onore.
 E tu, TITIRO mio, mcntr'io ricorro
 quel che mi detta Amor, le mie parole                  10
 va ricogliendo, e 'n quel surgente tronco
 le ripon di tua man; col tronco insieme
 sorgeranno il suo nome e i nostri amori.

 T. Dunque avrò da lodar la mia fortuna,
 che qui a quest'ora ha volto il mio camino;
 che, se brami DAMETA ch'el suo nome
 per le piante si legga, non ti dee
 noiar che TIRSE, tuo fedele amico,
 l'oda sonar ancor per la tua lingua.

 D. Tu se'qui Tirse? Anzi a me è caro assai             20
 che tu ci sia, che con la tua zampogna
 porger potrai soccorso a le mie note

 T. Ciò ch'a te piace. Ma saper disìo
 qual sia quella beata a cui tu intendi
 d'acquistar lode con tue eterne rime.

 D. Anzi sarian beate le mie rime
 se pareggiasser le sue eterne lode.
 Di TIRRENIA cantar è 'l mio pensiero.

 T. Di TIRRENIA? Ho più volte in queste selve
 il bel nome sentito; ma di lei                         30
 non ho particolare altra contezza.

 D. Gran danno a lei, ch'un sì gentile spirto
 non le sia in tempo alcun stato soggetto:
 a te, che del suo chiaro e vivo lume
 ancor non t'hai sentita l'alma accesa.

 T. Nova querela, udir ch'altri si doglia
 ch'altri non arda del medesmo foco.

 D. Da diverse cagion diversi effetti
 nascon, mio TIRSE, e altramente s'ama
 cosa pura mortale, altri disiri                        40
 son quei che movon da cose divine.
 Come, perché dal soie il lume prenda
 una copia infinita d'animanti
 non perciò il suo splendore alcuno è scemo;
 così qual uom si sente l'alma piena
 de' diletti de l'alma, non si sente
 scemar il ben perch'altri ancor ne goda.
 Anzi gode quel cor, ch'oggetto eterno
 ha in se scolpito, che per molti cori
 cresca la gloria del superno raggio.                   50
 E di quel ch'io ti dico, chiara luce
 di TIRRENIA ne porge il divo lume.

 T. Bramo di quel che di' saperne il come.

 D. TIRSE, non ha veduto il secol nostro
 pastor ch'io creda alcun, che d'alcun pregio
 abbia colto ghirlanda in Elicona,
 che s'ha lei vista, e se gli accenti suoi
 ha ne l'alma raccolti, tale ardore
 non abbia conceputo, che 'l suo ingegno
 n'ha poi fuor dimostrati ardenti lampi.                60
 Nè tra color giammai si vide o udìo
 che ne nascesse invidia o gelosia;
 anzi di lodar lei fa ognuno a gara,
 e ne l'udir di lei ciascun si gode
 de le sue laudi, e l'un l'altro n'invita
 a dir del bel suggetto. E 'n lei n'avviene
 quel ch'avvien de le cose rare e nove
 e ch'avverrìa se sopra l'orizzonte
 cominciasse a scoprirsi un nuovo sole
 a gli occhi nostri: che com'altri scorto               70
 prima l'avesse, così immantenente
 si volgerebbe a dimostrarlo altrui.
 E ciò n'avvien perochè al suo focile
 non s'accende altro che gentil disire.

 T. Nuovo ben, nuove grazie e santi amori.
 Ma bram'io da te, se non t'annoia,
 Dameta mio, che tu mi scopri ancora
 que' pastor onorati che pur dianzi
 hai detto c'han per lei cantato e arso.

 D. E questo, Tirse, ancor farò di grado,               80
 nè penso ch'altri altra più chiara fede
 possa altrui far del suo valor soprano
 che con sì gloriosi testimoni.
 Dirò di loro, e dirò con tal legge,
 che senza servar legge, di quel prima
 ch'a la mia mente pria farà ritorno,
 m'udirai favellar. Nè creder dei
 ch'io sia per ricordargli tutti a pieno;
 che lungo fora, e poi non m'assicuro
 di tutti aver memoria o conoscenza.                    90

 T. Com'a te aggrada: io ad ascoltare intendo.

 D. Fra i primi che cantaro in riva al Tebro
 de la bella Tirrenia fu un pastore
 d'antico sangue e di gente Latina,
 e nel cui nome suona la sua gente
 e del cui canto ancor, e del cui suono,
 suonan le trionfali e altere sponde.
 Arse colui per lei lunga stagione:
 e ancor dolcemente ne sospira.

 E per lei sospirò quel chiaro spirto                  100
 che morendo lasciò dubbiosi i boschi
 tra le Muse di Lazio e di Toscana
 quali al suo dir sian state più benigne.
 Dico di quel che per li sette colli
 abbandonò le piaggie di Panara.
 E un altro di patria a lui vicino
 per li paschi del Po ne 'l bel soggetto
 affaticò sovente le sue canne.
 TIRINTO dico, a costui 'l nostro Reno
 diè 'l patrio albergo; e poi, come 'l ciel volse,     110
 fu costretto a lasciare i dolci gioghi
 e pascer le sue gregge per le valli
 che 'l fiume, che detto ho, parte e abbraccia.

 Che dirò del pastor che l'Arbia onora?
 Di quel dotto pastore i cui vestigi
 van seguitando e pastorelli e ninfe,
 non altramente che lasciva greggia
 la lanuta sua guida? Ei le sue rime
 del bel nome ch'io canto ha fatte adorne.

 T. Tu di', s'io non m'inganno, di colui               120
 ch'un tempo parlar feo le nostre Muse
 con quelle leggi e con quelle misure,
 che già servò 'l Permesso, il Mincio e 'l Tebro.

 D. Di' pur che dir di lui mia lingua intese.
 E di lei cantò ancor un'altro Tosco,
 un giovin pastor, ch'in riva d'Arno
 mentre ch'a lui spargeano il novo fiore
 le molli guance, con sì dolci note
 tenne le ninfe, i satiri e i silvani,
 de le donne cantando i pregi eterni,                  130
 che ne parlano ancor per questi poggi
 le quercie e gli olmi; e se da morte acerba
 non era tolto, a lui nel secol nostro
 si convenia l'onor de i primi allori.

 Nè ci mancano ancor tra queste rive
 di quei che van segnando il chiaro nome
 in piante e in sassi. E sopra gli altri s'ode
 risonar BATTO: BATTO, che per l'erta
 del sacro monte sale a' sì gran varchi,
 che fatica è notar le sue pedate.                     140
 Ei d'or in or a lei volgendo gli occhi
 prende virtute a gli alti e bei suggetti.

 Per lei fatto anco ha risonare i boschi
 colui, che sceso da gli alpestri gioghi
 onde discendon l'acque a i lieti paschi,
 de' pastor d'Insubria, in su le sponde
 del Re de' fiumi fe 'l suo nome chiaro
 cantando a l'ombra d'un gentil ginebro.

 Fu cantata costei da l'aurea cetra
 d'un ben dotto pastore, a cui Parnaso                 150
 concedette non sol tener le Ninfe
 al dolce suon de le palustri canne,
 ma gli mostrò i secreti di natura,
 e render la salute a i membri infermi.

 T. Forse di lui vuoi dir, che già discese
 dal chiaro sangue di quel gran bifolco,
 che fuggendo l'incendio e la ruina
 de la sua patria, penetrando i seni
 de l'aspra Illiria e di Liburni e d'Istri,
 non lunge d'Adria pose la sua mandra?                 160

 D. Di lui dir volli. E dir ti voglio ancora
 che 'l ricordar de gl'Istri a la mia mente
 tornato ha MOPSO; MOPSO, in cui contende
 il favor de le Muse e lo intelletto.
 del terminar le sanguinose liti
 de' più audaci pastor. Or quanto e dove
 ei sia per TIRRENIA arso e quanto egli arda,
 e quanto abbia per lei cantato e canti,
 fan chiara fede il Po, il Ticino e l'Arno
 che mille piante han di sue rime impresse.            170

 Ma dove lascio, lasso, il buono IOLA,
 IOLA che col dotto e nuovo suono
 de ben temprati calami, a' pastori
 solea far corto e agevole sentiero
 di gir al fonte che fa i nomi eterni?
 Questi venuto da gli aperti campi
 che bagna l'uno e l'altro Tagliamento,
 sè di gloria colmò, d'invidia altrui.
 Ei col vivace lume del suo ingegno
 solea in TIRRENIA, come aquila in sole,               180
 gli occhi affissare e da' suoi chiari raggi
 formar lo stile, e le parole, e 'l canto.
 Morte pose silenzio a le sue note.

 Invida morte, a lei rapisti ancora
 e al mondo insieme un'altra chiara luce
 d'un gran pastor, che nato in queste piagge
 fu cultor nel giardin de' pomi d'oro.
 Poi trapassando a le ricche pasture
 e a gli orti di Celio e d'Aventino,
 si trovò non pur d'edere e di mirti,                  190
 ma di purpurei fior cinte le tempie.
 Fior di gloria mortal com'è caduco!
 Ne sospirano ancor i sette colli
 del caso acerbo; e VIRBIO nei sospiri
 suona d'intorno. VIRBIO almo pastore
 e poeta e materia de' poeti;
 viverà in mille versi il pastor sacro
 e 'l pregio di Tirrenia ne' suoi versi.               200

 Non patisce la gloria di costui
 ch'altri d'altro pastor, d'altro poeta,
 faccia memoria: e a te bastar ben puote
 d'aver sentito come tali e tanti,
 e poeti, e pastori, i loro ingegni
 abbian stancati intorno al caro oggetto.

 T. Come sollecita ape per li prati
 suoi la novella state errando intorno
 di fior in fior gustare il dolce succo:
 o come innamorata pastorella                          210
 di varii fiori al suo diletto amante
 trecciar si vede una ghirlanda fresca,
 così visto ho DAMETA la tua lingua
 andar cogliendo il fior de i chiari spirti,
 onde composto è 'l mel di quelle lode,
 che rese ha 'l mondo a la tua cara amata,
 e coronata d'immortal corona.

 D. Ma non men gloriosa è la corona
 ch'ella tesse a sè stessa: ch'oltra quelle
 rime che d'ella col favor suo ispira                  220
 a chi del suo amor arde, che da lei
 non men provengon che da l'altre Muse
 le rime e i versi de gli altri poeti.
 Ella suol d'or in or con le sue rime
 destare i boschi intorno; e ad ora ad ora,
 co' i più rari pastor cantando a prova
 tiene intenti al suo dir Fauni e Napee.
 Già sono impressi in più ch'in una pianta
 gli alti suoi amori; e la virtù d'amore
 quanto sia grande e come sia infinita,                230
 si legge da lei scritta in nuove scorze:
 e suggetti altri, che felicemente
 viveran col suo nome chiari e eterni.

 T. Ragion è adunque che sì altero spirto
 cantato sia da gli spirti più chiari.

 D. TIRSE, non vo' lasciare ancor di dirti
 che se di lei scorgessi il divo aspetto,
 e le dolci maniere e i bei sembianti:
 s'udissi il suon de l'alte sue parole,
 e le sentenze de' profondi detti,                     240
 protesti dir, non quel che di Medusa
 si favoleggia che sua fiera vista
 altrui mutava in insensibil pietra;
 ma c'ha virtute a l'insensibil pietre
 d'ispirar sentimento e intelletto.
 O s'udissi talor quando accompagna
 la voce al suon de la soave cetra:
 o quando assisa tra Ninfe e Pastori
 move tra lor la lingua a dolci note:
 s'udissi, dico, come in nuovi accenti,                250
 e come in soavissimi sospiri
 l'aria intorno addolcisca, e i vaghi augelli
 tra le frondi si stiano intenti e muti,
 e come i colli, e gli alberi, e le grotte
 mandin cantando al ciel novelle voci,
 so che non chiederiano i tuoi disiri
 altre Muse, altro Apollo, altro Elicona.

 T. Grazie son queste così belle e care,
 ch'in lei racconti, che fan dubbio altrui
 se sia da dir ch'essa sia rara, o sola.               260
 Ma perché spesso avvien ai nostri cori
 che da l'un bel disio l'altro risorge,
 poi che m'hai di TIRRENIA il gran valore
 fatto sì aperto, ancor saper disio
 qual sia di lei la stirpe e 'l patrio suolo;
 salvo se del parlar già non se' stanco.

 D. Di ragionar di lei sazio nè stanco
 esser non poss'io mai; poi vizio fora
 non sodisfare a sì giusti disiri.
 Or porgi orecchie al chiaro nascimento.               270

 In quelle parti ove si corca il sole,
 si stende un'onorato ampio paese,
 lo qual da l'oceano e dal mar nostro
 è cinto d'ogni intorno, se non quanto
 lunga costa di gioghi s'attraversa:
 e questi son chiamati i Pirenei.
 Da questi monti un gran fiume discende,
 il qual porta tributo al sale interno,
 e IBERO è 'l suo nome: or quanto serra
 il giogo, e l'acque dolci, e l'acque salse,           280
 vien nomato ARAGON. In quel paese
 già surse un'onorata e chiara stirpe
 ch'in tutti que' confìn co 'l suo vincastro
 diede legge a' pastori ed a' bifolchi;
 e questa dal paese il nome tolse.
 Poi co 'l girar del ciel volgendo gli anni
 passò l'alto legnaggio a i nostri liti,
 a gl'italici liti; e s'alcun nome
 ci fu mai chiaro o altero, sopra gli altri
 questo gran tempo risonar s'udìo.                     290
 Che donde di là in Adria il fiume Aterno,
 e di quà passa il Liri al gran Tirreno,
 quanto circonda 'l mar fin là ove frange
 l'orribil Scilla i legni a i duri scogli,
 e quanto ara Peloro e Lilibeo,
 solea già tutto a la famosa verga
 del generoso sangue esser soggetto.

 Or fra molti altri uscìo del chiaro sangue
 un gran pastor, che di purpuree bende
 ornato il crine e la sacrata fronte,                  300
 com'amor volle, un giorno per le rive
 del vago Tebro errando, a gli occhi suoi
 corse l'aspetto grazioso e novo
 de la bella IOLE. Questa tra le sponde
 nata del Re de' fiumi, ove si parte
 l'acqua del suo gran fiume in molti fiumi,
 avea cangiato 'l Po coi sette poggi:
 e di questa 'l pastor, di ch'io ragiono,
 caldo di dolce amore fe' 'l grande acquisto
 di lei, ch'or m'arde il cor d'eterno amore.           310

 T. Già non si convenìa men chiaro seme
 per dare al mondo pianta sì gentile.

 D. E non si convenìa men chiaro loco
 al gran concetto e al glorioso parto
 che l'onorate piaggie trionfali
 de l'almo Tebro, il quale andar si vede
 non men superbo che tra le sue arene
 sia germogliata pianta sì felice,
 che di solenne alcun altro trionfo.

 T. Dunque felice il luogo, e 'l seme, e 'l ventre,    320
 onde frutto sì eletto al mondo nacque:
 e più felice a cui dal cielo è dato
 gli occhi affissar nel lume de' begl'occhi,
 ai dolci accenti aver l'orecchie intente,
 e aver de gli occhi e de gli orecchi aperte
 le porte a l'alma e aver l'alma rivolta
 a la beltà del doppio eterno oggetto
 da salir sopra 'l cielo. E sopra ogn'altro
 felicissima lei, ch 'l gran legnaggio
 e l'alto onor del bel nido natìo                      330
 vinto ha col pregio del valore interno.

 Ma mentre abbiam la lingua e 'l cor rivolti
 al tuo bel Sole, è già 'l celeste sole
 presso che giunto a l'ultimo orizzonte:
 perché buon sia che diam luogo a la sera.

 D. Vanne felice. Io pria che 'l vago piede,
 rivolga altrove, questa bella pianta
 sacrare intendo a lei, cui 'l petto ho sacro
 con la memoria de l'amato nome



 [5 O sante Dee.]
 [11 raccogliendo.]
 [15 ch'a quest'ora qui volto ho 'l]
 [20 m'è.]
 [23 Eccomi presto.]
 [24 il cui valore.]
 [25 cerchi inalzar con le tue.]
 [44 Non è in alcuno il suo splendore scemo.]
 [48 Nel core ha impresso.]
 [60 eterni lampi.]
 [63 fan tutti.]
 [76 ben da te.]
 [127 Nel tempo che.]
 [128 Sue molli.]
 [147 Del real fiume.]
 [174 Agevolar solea l'aspro sentiero.]
 [205 Bastar ben ti puote.]
 [225 e d'or in ora.]
 [231 Leggesi.]
 [233 col suo nome eterna vita.]
 [252 L'aria addolcisca donde i vaghi augelli.]
 [261 Ma perché avvenir suol ne i nostri cuori.]
 [262 Che spesso l'un disio dall'altro sorge.]
 [289 chiaro sopra gli altri nomi.]
 [290 Questo oltra gli altri risuonar s'è udito.]
 [314 beato parto.]



 INDICE

 (ARAGONA)
 Alma del vero bel chiara sembianza
 (ARRIGHI B.)
 Alma gentile che già foste al paro
 (ARAGONA )
 Alma gentile in cui l'eterna mente
 (STROZZI F.)
 Alma gentile ove ogni studio pose
 (ARAGONA)
 Almo Pastor che godi alle chiare onde
 (Muzio G.)
 Amore ad ora ad or battendo l'ale
 (ARAGONA )
 Amore un tempo in così lento foco
 (MUZIO G.)
 Amor nel cor mi siede e vuol ch'io dica
 (LO STESSO)
 Anima bella che da gli alti chiostri
 (ARAGONA)
 Anima bella che dal Padre Eterno
 (DE' MEDICI I.)
 Anima bella che nel tuo bel lume
  (ARAGONA)
 Bembo, io che fino a qui di grave sonno
 (LA STESSA)
 Ben fu felice vostro alto destino
 (CAMILLO G.)
 Ben fu tra gli altri avventuroso il giorno
 (ARAGONA)
 Ben mi credea fuggendo il mio bel sole
 (LA STESSA)
 Ben si richiede al vostro almo splendore
 (LA STESSA)
 Ben sono in me d'ogni virtute accese
 (LA STESSA)
 Bernardo, ben potea bastarvi averne
 (MUZIO G.)
 Canti chi vuol le sanguinose imprese
 (ARRIGHI A.)
 Come di dolce più che d'agro parte
 (MUZIO G.)
 Dal mio mortal co 'l mio immortal m'involo.
 (DE' BENUCCI L.)
 Deh, non volgete altrove il dotto stile
 (MUZIO G.)
 Dive ch'al suon de la dorata cetra
 (ARAGONA)
 Dive che dal bel monte d'Elicona
 (MUZIO G.)
 Donna a cui 'l santo coro ognor s'aggira.
 (VARCHI B.)
 Donna che di bellezza e di virtute
 (MUZIO G.)
 Donna che sete in terra il primo oggetto
  (LO STESSO)
 Donna i cui beati ardori
 (LO STESSO)
 Donna il cui grazioso e altero aspetto
 (LO STESSO)
 Donna l'onor de' i cui be' raggi ardenti
 (LO STESSO)
 Donna più volte m'ha già detto amore
 (ARAGONA)
 Donna reale a i cui santi disiri
 (MUZIO G.)
 Donna se mai vedeste in verde prato
 (ARAGONA)
 Dopo importuna pioggia
 (MUZIO G.)
 Ebbe la favolosa antica etade
 (LO STESSO)
 È già gran tempo o Muse il mio suggetto
 (ARAGONA)
 Felice speme che a tant'alta impresa
 (MUZIO G. )
 Fiamma che chiaramente il mio cor ardi
 (ARAGONA)
 Fiamma gentil che da gl'interni lumi
 (MUZIO G.)
 Già fiammeggiava presso a l'aurea Aurora.
 (LO STESSO)
 Già risalito sopra l'orizzonte
 (LO STESSO)
 Già vide alle sue sponde il gelid'Ebro
 (ARAGONA)
 Ho più volte signor fatto pensiero
  (MUZIO O.)
 Il valor vostro Donna il cor m'incende
 (LO STESSO)
 In su le rive del superbo fiume
 (ARAGONA)
 Io ch'a ragion tengo me stessa a vile
 (LA STESSA)
 Io che fin qui quasi alga ingrata e vile
 (VARCHI B.)
 Io non miro giammai cosa nessuna
 (ARAGONA)
 La nobil valorosa antica gente
 (MUZIO G.)
 La sembianza di Dio che 'n noi risplende
 (ARRIGHI A).
 L'aspetto sacro e la bellezza rara
 (MUZIO G.)
 Lasso onde avvien che qui non fa ritorno
 (LO STESSO )
 L'erboso prato e i verdeggianti allori
 (......)
 Lieto viss'io sotto un bianco lauro
 (ARAGONA)
 Mentre ch'al suon de' i dotti ornati versi
 (MUZIO G.)
 Mentre le fiamme più che 'l sol lucenti
 (DA MONTE VARCHI C.)
 Mosso da l'alta vostra chiara fama
 (ARAGONA)
 Nè vostro impero ancor che bello e raro
 (VARCHI B.)
 Ninfa di cui per boschi, o fonti, o prati
 (ARAGONA)
 Non così d'acqua colmo in mar discende
 (LA STESSA)
 Nuovo Numa Toscan che le chiar'onde
 (DE' BENUCCI L.)
 O fiumicel se 'l più cocente ardore
 (MUZIO G.)
 O novo esempio de l'eterna luce
 (ARAGONA)
 O qual vi debb'io dire o Donna o Diva
 (MUZIO G.)
 Or di là se ne vien questa dolce ora
 (PORZIO S)
 Or qual penna d'ingegno m'assecura
 (MUZIO G.)
 O se tra queste ombrose e fresche rive
 (ARAGONA)
 Ov'è misera me quell'aureo crine
 (VARCHI B.)
 Per non sentir la turba iniqua e fella
 (ARAGONA)
 Più volte Ugolin mio mossi il pensiero
 (CAMILLO G.)
 Poi ch'a la vostra tanto alma beltade
 (BENTIVOGLIO E.)
 Poi che lasciando i sette colli e l'acque
 (ARAGONA)
 Poi che mi diè natura a voi simile
 (LA STESSA)
 Poi che rea sorte ingiustamente preme
 (LA STESSA)
 Porzio gentile a cui l'alma natura
  (LA STESSA)
 Poscia, ohimè, che spento ha l'empia morte
 (MUZO G.)
 Quai d'eloquenza fien sì chiari fiumi
 (ARAGONA)
 Qual vaga Filomela che fuggita
 (MUZIO G.)
 Quando, com'Amor vuol, la donna mia
 (VARCHI B.)
 Quando doveva ohimè l'arco e la face
 (TOLOMEI C.)
 Quando la Tullia mia che vien dal cielo
 (MUZIO G.)
 Quando 'l raggio del bel ch'in voi risplende
 (ARAGONA)
 Quel che 'l mondo d'invidia empie e di duolo
 (LA STESSA)
 Sacro pastor che la tua greggia umile
 (LA STESSA)
 S' a l'alto Creator de gli elementi
 (MUZIO G.)
 Sebben gli occhi e l'orecchie alcuna volta
 (MARTELLI U.)
 Se bella voi così le Grazie fero
 (ARAGONA)
 Se ben pietosa madre unico figlio
 (VARCHI B.)
 Se da i bassi pensier talor m'involo
 (LO STESSO)
 Se di così selvaggio e così duro
 (ARAGONA)
 Se forse per pietà del mio languire
  (LA STESSA)
 Se gli antichi pastor di rose e fiori
 (LA STESSA)
 Se 'l ciel sempre sereno e verdi i prati
 (DE' MEDICI I.)
 Se 'l dolce folgorar de i bei crini d'oro
 (MARTELLI N.)
 Se 'l mondo diede allor la gloria a Arpino
 (MARTELLI U.)
 Se lodando di voi quel che palese
 (MOLZA B.)
 Se 'l pensier mio, ov'altamente amore
 (GRAZZINI A.)
 Se 'l vostro alto valor, Donna gentile
 (ARAGONA)
 Se materna pietate affligge il core
 (DE' BENUCCI L.)
 Se per lodarvi e dir quanto s'onora
 (ARAGONA)
 Se veston sol d'eterna gloria il manto
 (LA STESSA)
 Siena dolente i suoi migliori invita
 (LA STESSA)
 Signor che con pietate alta e consiglio
 (LA STESSA)
 Signor d'ogni valor più d'altro adorno
 (LA STESSA)
 Signore in cui valore e cortesia
 (LA STESSA)
 Signor nel cui divino alto valore
 (LA STESSA)
 Signor pregio e onor di questa etade
  (ARRIGHI A.)
 S'il dissi mai ch'io venga in odio a voi
 (ARAGONA)
 S'io 'l feci unqua, che mai non giunga a riva
 (MUZIO G.)
 Sogni chi vuol di riportar corona
 (LO STESSO)
 Spirto felice in cui sì rare e tante
 (ARAGONA)
 Spirto gentil che dal natio terreno
 (LA STESSA)
 Spirto gentil che vero e raro oggetto
 (MOLZA B.)
 Spirto gentile che riccamente adorno
 (MUZIO G.)
 Spirto gentile in cui sì chiaramente
 (ARAGONA)
 Spirto gentil s'el giusto voler mio
 (ARRIGHI A.)
 S'un medesimo stral due petti aprio
 (MUZIO G.)
 Superbo Po ch'a la tua manca riva
 (LO STESSO)
 Torniamo o Muse a i pianti e ai sospiri
 (CAMILLO G.)
 Tullia gentile a le cui tempie intorno
 (DALLA VOLTA S.)
 Tullia mostro miracol Sibilla
 (STROZZI F.)
 Uscendo 'l spirto mio per seguir voi
 (BENTIVOGLIO E.)
 Vaghe sorelle che di trecce bionde
  (ARAGONA)
 Varchi, da cui giammai non si scompagna
 (LA STESSA)
 Varchi, il cui raro e immortal valore
 (GlOVENALE L.)
 Vide già la famosa antica etade
 (ARAGONA)
 Voi ch'avete fortuna sì nemica
 (MARTELLI L.)
 Voi che lieti pascete ad Arno intorno
 (ARRIGHI B.)
 Voi che volgete il vostro alto disio










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THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE
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distribution of electronic works, by using or distributing this work
(or any other work associated in any way with the phrase "Project
Gutenberg"), you agree to comply with all the terms of the Full
Project Gutenberg-tm License available with this file or online at
www.gutenberg.org/license.

Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project
Gutenberg-tm electronic works

1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg-tm
electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to
and accept all the terms of this license and intellectual property
(trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all
the terms of this agreement, you must cease using and return or
destroy all copies of Project Gutenberg-tm electronic works in your
possession. If you paid a fee for obtaining a copy of or access to a
Project Gutenberg-tm electronic work and you do not agree to be bound
by the terms of this agreement, you may obtain a refund from the
person or entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph
1.E.8.

1.B. "Project Gutenberg" is a registered trademark. It may only be
used on or associated in any way with an electronic work by people who
agree to be bound by the terms of this agreement. There are a few
things that you can do with most Project Gutenberg-tm electronic works
even without complying with the full terms of this agreement. See
paragraph 1.C below. There are a lot of things you can do with Project
Gutenberg-tm electronic works if you follow the terms of this
agreement and help preserve free future access to Project Gutenberg-tm
electronic works. See paragraph 1.E below.

1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation ("the
Foundation" or PGLAF), owns a compilation copyright in the collection
of Project Gutenberg-tm electronic works. Nearly all the individual
works in the collection are in the public domain in the United
States. If an individual work is unprotected by copyright law in the
United States and you are located in the United States, we do not
claim a right to prevent you from copying, distributing, performing,
displaying or creating derivative works based on the work as long as
all references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hope
that you will support the Project Gutenberg-tm mission of promoting
free access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg-tm
works in compliance with the terms of this agreement for keeping the
Project Gutenberg-tm name associated with the work. You can easily
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you share it without charge with others.

1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern
what you can do with this work. Copyright laws in most countries are
in a constant state of change. If you are outside the United States,
check the laws of your country in addition to the terms of this
agreement before downloading, copying, displaying, performing,
distributing or creating derivative works based on this work or any
other Project Gutenberg-tm work. The Foundation makes no
representations concerning the copyright status of any work in any
country outside the United States.

1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg:

1.E.1. The following sentence, with active links to, or other
immediate access to, the full Project Gutenberg-tm License must appear
prominently whenever any copy of a Project Gutenberg-tm work (any work
on which the phrase "Project Gutenberg" appears, or with which the
phrase "Project Gutenberg" is associated) is accessed, displayed,
performed, viewed, copied or distributed:

 This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and
 most other parts of the world at no cost and with almost no
 restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it
 under the terms of the Project Gutenberg License included with this
 eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the
 United States, you'll have to check the laws of the country where you
 are located before using this ebook.

1.E.2. If an individual Project Gutenberg-tm electronic work is
derived from texts not protected by U.S. copyright law (does not
contain a notice indicating that it is posted with permission of the
copyright holder), the work can be copied and distributed to anyone in
the United States without paying any fees or charges. If you are
redistributing or providing access to a work with the phrase "Project
Gutenberg" associated with or appearing on the work, you must comply
either with the requirements of paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 or
obtain permission for the use of the work and the Project Gutenberg-tm
trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or 1.E.9.

1.E.3. If an individual Project Gutenberg-tm electronic work is posted
with the permission of the copyright holder, your use and distribution
must comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and any
additional terms imposed by the copyright holder. Additional terms
will be linked to the Project Gutenberg-tm License for all works
posted with the permission of the copyright holder found at the
beginning of this work.

1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg-tm
License terms from this work, or any files containing a part of this
work or any other work associated with Project Gutenberg-tm.

1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute this
electronic work, or any part of this electronic work, without
prominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 with
active links or immediate access to the full terms of the Project
Gutenberg-tm License.

1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary,
compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, including
any word processing or hypertext form. However, if you provide access
to or distribute copies of a Project Gutenberg-tm work in a format
other than "Plain Vanilla ASCII" or other format used in the official
version posted on the official Project Gutenberg-tm web site
(www.gutenberg.org), you must, at no additional cost, fee or expense
to the user, provide a copy, a means of exporting a copy, or a means
of obtaining a copy upon request, of the work in its original "Plain
Vanilla ASCII" or other form. Any alternate format must include the
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1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying,
performing, copying or distributing any Project Gutenberg-tm works
unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9.

1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing
access to or distributing Project Gutenberg-tm electronic works
provided that

* You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from
 the use of Project Gutenberg-tm works calculated using the method
 you already use to calculate your applicable taxes. The fee is owed
 to the owner of the Project Gutenberg-tm trademark, but he has
 agreed to donate royalties under this paragraph to the Project
 Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments must be paid
 within 60 days following each date on which you prepare (or are
 legally required to prepare) your periodic tax returns. Royalty
 payments should be clearly marked as such and sent to the Project
 Gutenberg Literary Archive Foundation at the address specified in
 Section 4, "Information about donations to the Project Gutenberg
 Literary Archive Foundation."

* You provide a full refund of any money paid by a user who notifies
 you in writing (or by e-mail) within 30 days of receipt that s/he
 does not agree to the terms of the full Project Gutenberg-tm
 License. You must require such a user to return or destroy all
 copies of the works possessed in a physical medium and discontinue
 all use of and all access to other copies of Project Gutenberg-tm
 works.

* You provide, in accordance with paragraph 1.F.3, a full refund of
 any money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the
 electronic work is discovered and reported to you within 90 days of
 receipt of the work.

* You comply with all other terms of this agreement for free
 distribution of Project Gutenberg-tm works.

1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a Project
Gutenberg-tm electronic work or group of works on different terms than
are set forth in this agreement, you must obtain permission in writing
from both the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and The
Project Gutenberg Trademark LLC, the owner of the Project Gutenberg-tm
trademark. Contact the Foundation as set forth in Section 3 below.

1.F.

1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable
effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread
works not protected by U.S. copyright law in creating the Project
Gutenberg-tm collection. Despite these efforts, Project Gutenberg-tm
electronic works, and the medium on which they may be stored, may
contain "Defects," such as, but not limited to, incomplete, inaccurate
or corrupt data, transcription errors, a copyright or other
intellectual property infringement, a defective or damaged disk or
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LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE
PROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE
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LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR
INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH
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with your written explanation. The person or entity that provided you
with the defective work may elect to provide a replacement copy in
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the second copy is also defective, you may demand a refund in writing
without further opportunities to fix the problem.

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in paragraph 1.F.3, this work is provided to you 'AS-IS', WITH NO
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LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

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warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

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providing copies of Project Gutenberg-tm electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg-tm
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg-tm work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg-tm work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at
www.gutenberg.org



Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is in Fairbanks, Alaska, with the
mailing address: PO Box 750175, Fairbanks, AK 99775, but its
volunteers and employees are scattered throughout numerous
locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt
Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to
date contact information can be found at the Foundation's web site and
official page at www.gutenberg.org/contact

For additional contact information:

   Dr. Gregory B. Newby
   Chief Executive and Director
   [email protected]

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular
state visit www.gutenberg.org/donate

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate

Section 5. General Information About Project Gutenberg-tm electronic works.

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

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facility: www.gutenberg.org

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